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(WSI) –
Gli italiani vogliono pagare meno tasse, anche a costo di ottenere meno servizi pubblici. Lo dice un sondaggio commissionato per la trasmissione Porta a Porta andata in onda mercoledì scorso (e che potete consultare su www.sondaggipoliticoelettorali. it.
Il 38 percento dei cittadini ritiene che bisogna «diminuire le tasse anche se ciò significa ridurre i fondi per la spesa sociale (sanità, scuola, pensioni)». Il 34 percento pensa che occorra mantenere gli «attuali finanziamenti per i servizi sociali, anche se ciò significa un aumento delle tasse». Per il 28 percento «le cose devono restare come sono».
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Questi dati, in parte, riflettono la spaccatura del paese registrata con le elezioni del 9 aprile, quando nessuno dei due schieramenti, pur avendo programmi nettamente contrapposti, è riuscito a ottenere la maggioranza assoluta. Per altri versi, però, indicano uno spostamento dell’opinione pubblica verso le politiche propugnate dalla Casa della Libertà, in concomitanza con la presentazione della Finanziaria 2007, che è il primo atto di politica economica e fiscale del governo di Romano Prodi.
Se si sommano il 38 percento che vuole “meno tasse”, e il 24 percento che chiede lo “status quo” – cioè mantenere i livelli di pressione fiscale cui si è giunti grazie ai cinque anni di governo di Silvio Berlusconi – si scopre che oltre il 50 percento degli italiani sono elettori del centrodestra “scontenti” (cosa di per sé normale), o elettori del centrosinistra “pentiti” (il che dovrebbe far riflettere Prodi e i moderati della sua coalizione). Insomma gli italiani hanno più paura di Prodi e delle sue tasse, di quanto temessero Berlusconi e la sua finanza creativa che, però, non metteva le mani nelle tasche dei contribuenti.
Ma il dato politicamente più significativo non è tanto quello contingente, quanto la tendenza di medio-lungo periodo indicata da questo sondaggio. Dal 1985 a oggi la progressione di chi vuole «meno tasse e meno Stato» è netta: dal 33 al 38 percento. Nello stesso periodo, i fautori del «più tasse più welfare» sono diminuiti in quantità ancora maggiore: dal 46 al 34 percento. L’anno di riferimento 1985 non è politicamente casuale: a quell’epoca, nell’Europa continentale si vantavano i meriti del welfare keynesiano, mentre agli occhi della sinistra i “cattivi” erano Margaret Thatcher e Ronald Reagan e le loro politiche liberiste.
I dati del sondaggio dimostrano che, a distanza di ventuno anni, gli italiani sono entrati nella modernità e si sono schierati finalmente dalla parte di Thatcher e Reagan. Come gli inglesi e gli americani prima di loro, anche i nostri concittadini vogliono una società più fondata sulla responsabilità individuali e in cui lo Stato la faccia meno da padre-padrone. Purtroppo chi ci governa la pensa all’opposto, come dimostra la Finanziaria 2007, e gli esiti rischiano di essere catastrofici. Una rapida occhiata al contesto mondiale ci può aiutare a capire il perché.
Globalizzazione e sviluppo
Il capitalismo di mercato è una struttura globalmente accettata perfino dai paesi sedicenti “comunisti” come la Cina e il Vietnam. Altrettanto accettata è la globalizzazione, fenomeno inarrestabile, che garantisce tassi di crescita importanti ai paesi ricchi e, ancor di più, a quelli in via di sviluppo. Nel contesto dell’interdipendenza globale, i singoli Stati non sono più gli attori principali: sono le singole imprese e i singoli individui a giocare il ruolo primario. Lo Stato, per contro, ha un ruolo decisivo solo nel creare le condizioni favorevoli allo sviluppo economico macro.
Analoghe considerazioni valgono a livello dei singoli paesi: laddove lo Stato è fortemente presente, prevalgono tassi di crescita bassi; l’economia, invece, corre quando lo Stato è “leggero”. Cosa c’entrano le tasse? La pressione fiscale è il primo e principale indicatore della presenza dello Stato nella vita di un paese e dei suoi cittadini. La tendenza globale è alla riduzione di questa presenza che, se eccessiva, mina le possibilità di sviluppo economico.
Conosciamo tutti il caso di Stati Uniti e Regno Unito: grazie alle politiche liberali di Thatcher e Reagan – che non sono state rimesse in discussione da nessuno dei loro successori – i tassi di crescita sono rimasti elevati anche nel periodo di stagnazione globale dei primi anni del nuovo millennio. In Cina stiamo assistendo a un’apertura economica massiccia. Nei paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est, lo sviluppo è stato garantito dalla massima libertà economica individuale, accompagnata da politiche di flat tax.
Perfino nel Brasile del presidente “operaio” Lula gli interventi statali sono stati limitati a un limitato assistenzialismo per le classi più povere. In tutti questi paesi la pressione fiscale è molto bassa, comunque di gran lunga inferiore a quella dell’Europa continentale.
Le difficoltà della vecchia Europa
Il ritardo della Vecchia Europa si spiega con ragioni storiche e culturali. La Germania di Bismarck ha inventato lo stato sociale; la Francia giacobina è all’origine delle filosofie stataliste; i paesi scandinavi hanno fatto del welfare la loro identità; mentre Spagna, Portogallo, Grecia e Italia hanno ereditato strutture risalenti alle dittature pre e post belliche. Il risultato è che i tassi di crescita si sono dimensionati in modo direttamente proporzionale alla presenza dello Stato – e alla tassazione che ne consegue – nella vita di cittadini e imprese.
Ma le cose stanno cambiando anche nel Vecchio Continente. In Spagna la rivoluzione liberale si è compiuta con l’ex primo ministro, Josè Maria Aznar, e il suo successore socialista, Josè Luis Zapatero, non ne ha modificato l’impianto. In Danimarca, grazie al governo liberale di Anders Fogh Rasmussen, lo Stato si è fatto più leggero. In Svezia abbiamo appena assistito alla storica sconfitta dei socialdemocratici di Goran Persson, e ci si attende dal nuovo governo una politica di “meno tasse e meno Stato”.
In Germania, la grande coalizione sta approvando dolorose riforme liberali. In Francia tutti attendono che Nicolas Sarkozy salga all’Eliseo all’insegna della “rottura” liberale: «ricuso lo statalismo e il dirigismo, ho la convinzione che lo Stato non abbia vocazione a intervenire ovunque», ha detto questa settimana il leader del centrodestra.
La nota stonata è il governo di Romano Prodi e la sua Finanziaria. Grazie alla politica faticosamente liberale (non priva di deviazioni colbertiste…) e alla riduzione della pressione fiscale del precedente esecutivo (al 40,5% del pil), l’Italia di fine 2005 aveva ripreso a crescere a ritmi accettabili, dopo un quadriennio di stagnazione e, contemporaneamente, le entrate stavano aumentando in questo 2006 di svolta, grazie proprio alla diminuzione delle aliquote e al contemporaneo allargamento della base impositiva.
Prodi e il suo “sinistra-centro” hanno scelto una strada in controtendenza: quella del ritorno di più Stato, che preleva forzosamente dai portafogli dei singoli cittadini quote sempre maggiori di reddito (l’aumento della pressione fiscale record contenuto nella Finanziaria 2007) e perfino del loro trattamento di fine rapporto.
Le imprese vengono private di importanti risorse (tfr all’Inps), e devono far fronte a una nuova mole di adempimenti burocratico- fiscali per rispondere all’onnipresenza del nuovo grande fratello Vincenzo Visco (studi di settore, aumento dei contributi, aumento dei controlli…). In nome di una lotta di classe che non c’è più, il messaggio che Prodi ha voluto dare agli italiani è la “redistribuzione” della ricchezza, attraverso un aumento delle tasse per i redditi più alti.
In realtà, gli italiani hanno ben compreso che la “tartassata” arriva per tutti. E, grazie a Prodi, torneranno presto anche le vacche magre: perché questa Finanziaria – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi – con l’aumento della pressione fiscale ai massimi storici, riuscirà a «ridurre la crescita del 2007 tra lo 0,2 e lo 0,3 percento». Siamo proprio un popolo sfortunato.
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