LA FRUSTA DI DRAGHI,
I DOVERI DI TREMONTI

di Redazione Wall Street Italia
31 Maggio 2008 11:31

“FORTE preoccupazione”. Oggi toccherà a Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, lanciare l’allarme sull’inflazione che è tornata a “minacciare il mondo”, come avverte l’Economist. “Una miscela esplosiva”, la chiama oggi Guglielmo Epifani. “Una malattia mortale”, la definiva nell’82 Milton Friedman. Hanno ragione tutti. Ma in questo coro inquieto manca solo una voce: quella del governo.

Questa inflazione è diversa da tutte le altre che in questi decenni ci eravamo abituati a conoscere. Il fenomeno è così esteso, e così perverso, che non si presta a facili demagogie né a banali semplificazioni. Il carovita è una “calamità morale”, secondo la felice definizione di Geofrey Howe, già cancelliere dello Scacchiere di Sua Maestà britannica.

Oggi è soprattutto una “calamità mondiale”. Il tasso medio d’inflazione, nel pianeta, è aumentato del 5,5 per cento, il livello più alto degli ultimi dieci anni, sospinto dal boom dei prezzi del petrolio e delle materie prime. È un flagello ovunque, non solo negli Stati Uniti e in Europa, che ne importano ormai a piene mani dalle altre aree del globo.

In Paesi come Cina, India, Indonesia e Arabia Saudita i prezzi sono cresciuti tra l’8 e il 10 per cento nell’ultimo anno. In Russia del 14 per cento, in Argentina del 23 per cento, in Venezuela addirittura del 29 per cento. Nell’Egitto povero scoppiano le rivolte della farina, nella Cina emergente dilaga la protesta del riso, nella Francia ricca esplode la battaglia del carburante. Si salvi chi può. Ma nessuno si senta escluso da questa nuova minaccia che globalizza tutto, la ricchezza e la miseria, l’abbondanza e la carestia, i profitti e le perdite.

L’intera Europa patisce la morsa del carovita. Lo ha già detto il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, lo ripeterà oggi il governatore di Bankitalia Draghi nelle sue “Considerazioni finali”. In Eurolandia, di fronte a un obiettivo di inflazione fissato al 2 per cento per il 2008, ci troviamo a fare i conti con un tasso medio del 3,6 per cento. Con picchi che superano il 5 per cento, come in Spagna.

Eppure l’Italia, con il suo 3,6 per cento di maggio perfettamente in linea con la media Ue, soffre più di tutti gli altri partner. Da dodici anni il nostro Paese non registrava un aumento dei prezzi così alto. Nessuno ricordava un’impennata così incontrollabile dei prezzi del pane e della pasta. Nessuno ricordava un’escalation così inarrestabile delle tariffe, delle bollette dell’elettricità, dell’acqua, del gas. E in pochi, forse, ricordavano una rincorsa tanto folle tra il costo della benzina e quello del diesel.

Questa acuta “sofferenza italiana” non cade dal cielo. Sta nel micidiale combinato disposto dei prezzi effettivi in aumento esponenziale e dei salari reali in caduta libera. Se metà delle famiglie italiane vive con 1.900 euro al mese, e se un litro di latte schizza a oltre 1,60 euro (moltiplicandosi per 4 nel passaggio dalla stalla al negozio) o un litro di gasolio sfonda quota 1,50 euro (aumentando del 21,1 per cento in un anno al lordo delle imposte) c’è poco da discutere di ripresa dell’economia e di rilancio della domanda interna.

C’è solo da temere che la crisi della “quarta settimana”, prima o poi, si accorci alla terza. Che la flessione dei consumi, prima o poi, precipiti il Paese in una dolorosa stagflazione. Che l’erosione dei redditi, prima o poi, allarghi oltre misura il perimetro sociale e il disagio esistenziale dei “penultimi”.

È la “miscela esplosiva” di cui parla il leader della Cgil. È il motivo della “forte preoccupazione” che il governatore esprimerà oggi a Palazzo Koch. Ma tutto questo chiama in causa il governo. Mai come oggi, di fronte allo spettro dell’inflazione, il centrodestra al potere farebbe bene ad ascoltare le prediche di Draghi, che ancora una volta corrono il rischio di apparire einaudianamente “inutili”.

La leva della politica monetaria, che con la gestione dei tassi d’interesse può orientare le aspettative dei mercati, non è più nelle mani della Banca d’Italia ma della Bce. E la Banca centrale europea, a dispetto dei troppi attacchi politici che si è meritata in questi anni, ha fatto e sta facendo fino in fondo il suo dovere. Ci dev’essere un motivo se l’Eurotower è additata a modello perfino per la mitica Federal Reserve, come riconoscono gli osservatori più critici (dal Financial Times al Wall Street Journal) e i politici più onesti (dal commissario Ue Almunia al ministro dell’economia francese).

Vigilanza sui mercati, nella filiera che va dal produttore al consumatore. Interventi fiscali su prezzi di beni specifici e tariffe non più amministrate. Iniezioni massicce di liberalizzazione nei settori protetti. C’è un’area vastissima di misure possibili, che il governo può e deve fare. Senza cadere nelle tentazioni dirigistiche. Ma senza tollerare le speculazioni mercatistiche.

Giulio Tremonti ama ripetere un leitmotiv: “L’economia la fa l’economia, non la fanno i governi”. Ha ragione solo in parte. Il ministro del Tesoro sa meglio di chiunque altro che, per sconfiggere la paura e ridare la speranza a un popolo sfibrato e impoverito, non basta cancellare un pezzo di Ici o detassare una modesta quota dello straordinario. Serve una politica, consapevole dei suoi doveri e capace di riaffermare i suoi primati. Lo ha scritto lui stesso, nel suo ultimo, fortunato bestseller. E noi lo prendiamo in parola. Non si può usare il colbertismo sull’Alitalia, e il determinismo sull’inflazione.

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