(WSI) – Il capo della Cia in Iraq spedisce un telegramma ai suoi superiori nel quartier generale di Langley, li avvisa che la situazione sta degenerando e che con ogni probabilità continuerà a peggiorare. Il documento è riservato, ma qualche informazione si diffonde e finisce sul New York Times. A questo punto la Casa Bianca minimizza tiepidamente, il presidente George W. Bush rifiuta il pessimismo dell’intelligence e fa sapere che l’America continuerà per la sua strada fino al voto del 30 gennaio, mentre l’ambasciatore Usa in Iraq John Negroponte ha scritto un «written dissent», un’opinione di minoranza in cui giudica il documento troppo severo e rivendica i successi ottenuti dall’esercito a stelle e strisce.
Ma il «classified document» in questione non fa notizia più di tanto, e certo non perché l’America in questi giorni non sia vigile davanti alle difficoltà irachene, ma perché non si tratta della prima volta che l’intelligence prevede il peggio. Ad agosto la Cia aveva inviato all’amministrazione un documento formale, il National Intelligence Estimate, che prevedeva un futuro a tinte fosche per le truppe americane in Iraq, almeno fino alla fine del 2005.
Anche in quel caso si trattava d’informazioni riservate, ma i media statunitensi avevano ugualmente ripreso i pronostici della Cia: nel migliore dei casi si prospettava una stabilità effimera e nel peggiore una serie di eventi che avrebbe portato alla guerra civile. Anche allora Bush prese le distanze dalle stime dell’intelligence, giudicandole «nulla più che congetture».
Congetture che provenivano da uno dei servizi più prestigiosi del globo, e che non si sono rivelate del tutto infondate visto che nel frattempo le violenze in Iraq sono aumentate e che, come riporta il New York Times, alcune fazioni sciite hanno recentemente formato una milizia proprio per combattere i loro compatrioti sunniti.
Il nuovo documento è meno formale del National Intelligence Estimate ma non per questo meno rilevante: si tratta di un un rapporto stilato dal capo (station chief) della Cia in Iraq a conclusione del suo mandato annuale. L’operazione dell’agenzia a Baghdad coinvolge più di trecento agenti e costituisce lo stanziamento di personale Cia all’estero più grande dopo la guerra del Vietnam.
Stando alle informazioni raccolte dai quotidiani americani, il rapporto individua negli episodi di «violenza settaria» un problema destinato ad aumentare nei prossimi mesi e che difficilmente troverà un soluzione fino a quando il governo iracheno non riuscirà a stabilire un solido controllo sul territorio e a raggiungere un minimo livello di stabilità economica (in altre parole: non a breve). Il generale George W. Casey Jr, comandante delle truppe in Iraq, ha letto il telegramma e non ha mosso obiezioni a riguardo, sebbene fonti militari sostengano che il generale potrebbe rilasciare un commento nei prossimi giorni.
In questi giorni le forze armate non possono smentire che il conflitto abbia prodotto difficoltà cui l’esercito non ha saputo far fronte nel migliore dei modi, ed una di queste è la necessità di personale. Con l’invio di nuove truppe, annunciato la scorsa settimana, il contingente americano in Iraq raggiungerà le 150 mila unità e per coprire una tale domanda le forze armate hanno dovuto ricorrere allo «stop loss», la pratica di estendere il servizio al fronte fino a 18 mesi oltre la scadenza consentita nei periodi di guerra già utilizzata nella prima guerra del Golfo, ma che influisce negativamente sul morale delle truppe.
Negli States ci si comincia a domandare se l’esercito non sia semplicemente troppo piccolo per gestire il conflitto iracheno: con il recente dispiegamento di forze si calcola che oltre settemila soldati sono stati colpiti dallo «stop loss». Otto di questi hanno già fatto causa alle forze armate.
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