(WSI ) – Tizio vince un milione di euro alla lotteria. Nello stesso momento il suo amico Caio viene travolto da una macchina mentre attraversa la strada ed è subito chiaro che finirà su una sedia a rotelle. Tizio è fortunato, Caio no. Durante il ricovero in ospedale Caio viene sottoposto a vari esami. Una Tac rivela un tumore che sta per diventare fatale. Il tumore viene asportato con lunghi e complessi interventi e Caio, grazie all’incidente e alla Tac, potrà ora vivere una lunga vita. Non è escluso che un giorno, miracoli della fisioterapia e della volontà, ritorni a camminare. Dalla palestra, dove passa ogni giorno molte ore, Caio manda un messaggio all’amico ai Caraibi. Alla fine, dice, quel giorno sono stato molto più fortunato di te.
Oggi l’Europa è vista come il grande malato del mondo. Il tumore greco ha creato metastasi in Irlanda e in Portogallo, mentre inquietanti macchie scure cominciano ad apparire su altre parti della Tac. Il voto parlamentare ad Atene e l’elegante piano francese di coinvolgimento dei creditori privati hanno posto fine anche a questo terzo episodio della crisi, ma l’Europa appare comunque stremata, impigliata in processi decisionali sempre più estenuanti e ingabbiata in una valuta che appare assurda a quasi tutti i Nobel dell’economia (quasi tutti americani, peraltro).
Il costo dei salvataggi sembra crescere senza fine. Le scatole cinesi (Nama, Efsf, fondo di stabilizzazione, la stessa Bce) diventano sempre più ingombranti e complicate. Banche, Bce e stati sono sempre meno distinguibili tra loro, come le lamiere aggrovigliate di tre auto che si sono scontrate tra loro e hanno preso fuoco. Gli spread aumentano. La chemio dei tagli di bilancio e delle tasse debilita ormai mezzo continente. Cura disastrosa, dicono in molti, come le sanguisughe che venivano applicate ai poveri malati di una volta e ne rendevano ancora più penosa la fine.
Così appare l’Europa, ma nulla è come appare. Certo, è evidente che senza cure palliative e senza facili amputazioni del debito via default si soffre di più. C’è però una tendenza a dipingere come tragica una situazione che non lo è. Chissà, forse lo diventerà, ma al momento non lo è. Quanto ai progressi (il disavanzo greco si è quasi dimezzato) li si ignora con un’alzata di spalle. Si fa notare che finché ci sono disavanzi il debito aumenta. Grande scoperta.
In realtà l’Europa cresce nel suo insieme piuttosto bene e l’euro non è più debole delle altre grandi valute, anzi. Alcuni paesi hanno perso punti di Pil, ma i teorici delle amputazioni ci ricordino per cortesia di quanto è sceso il Pil in Argentina e in Islanda dopo i default. In Grecia il Pil nominale in euro, che era di 233 miliardi nel 2009, sarà di 236 nel 2012 (stima di Goldman Sachs). In Argentina (in dollari) e in Islanda (in euro) si era più che dimezzato.
Finora, poi, i salvataggi sono costati poco alla Germania e agli altri. A rigore, trattandosi di prestiti, non sono costati nulla. Le scatole cinesi sono sempre più grandi, ma operano a leva finanziandosi sui mercati. L’opinione pubblica tedesca ha la sensazione di pagare costi altissimi. Un giorno li pagherà se e quando l’Europa sarà diventata come gli Stati Uniti, quando cioè le pensioni e la sanità greche saranno pagate dall’Unione (come Medicare e la Social Security) ma ad oggi i trasferimenti interni europei sono irrisori se paragonati con quelli americani.
La crisi, si dice, fa salire gli spread. Vero, ma gli spread che salgono sono l’arma più potente puntata sui governi affinché prendano sul serio il risanamento dei bilanci. L’America, che non paga nulla d’interesse sul suo debito a breve e che si fa comprare quello a lungo dalla Fed, non ha nessuna arma puntata contro e avrà l’anno prossimo un disavanzo dell’8.5 per cento. La Grecia, tanto per fare un paragone, l’avrà del 6.8, e la Spagna del 5.6, meno della Francia.
Naturalmente si potrebbe fare di meglio. Tra l’America che continua a dormicchiare e l’Europa che si cura senza anestesia c’è la via intermedia del Regno Unito, che si sottopone a tagli severi ma almeno si concede gli oppiacei del cambio debole e della monetizzazione parziale del debito ad opera della Bank of England.
Bene o male, in ogni caso, questo terzo episodio di crisi (dopo i due del 2010) è terminato. Avremo una scia sismica di mesi, fatta di ratifiche parlamentari tedesche, finlandesi o slovacche e di corte costituzionale tedesca in dicembre, ma il più è fatto.
E’ probabile che le borse abbiano visto il minimo dell’anno e si avviino adesso, dopo il rialzo di sollievo di queste ore, su un percorso di lento recupero. La produzione industriale globale è in graduale ripresa. Non sarà all’altezza delle attese di inizio anno e non ci sarà niente di spettacolare da nessuna parte, ma il segno sarà positivo.
Se potessi, dice Larry Fink di BlackRock, starei al 100 per cento in azioni. E’ difficile trovare argomenti per dargli torto. Le materie prime si trovano in una condizione di sostanziale equilibrio tra domanda e offerta e in ogni caso sono sorvegliate a vista dai governi, come abbiamo visto con il rilascio di riserve di petrolio. I governativi americani o tedeschi rendono pochissimo e da questo punto in avanti, pur escludendo un bear market, non daranno capital gain. L’oro, dal canto suo, dovrà vedersela, almeno nei prossimi due mesi, con un’inflazione con segno negativo e con la fine del Qe2.
Fra pochi giorni conosceremo gli utili del secondo trimestre, ma a parte le società coinvolte dal rallentamento giapponese, è difficile pensare a pesanti sorprese negative. Ricordiamo che l’altra faccia dell’occupazione che cresce poco sono i margini di profitto che restano alti.
Concludiamo con una considerazione generale. La crisi greca, abbiamo detto, è stata contenuta in extremis. E’ anche possibile che l’Europa esca ancora una volta più federale e mutualista, e quindi più forte, da questo episodio.
La crisi ci ha però fatto anche vedere molto da vicino i rischi di implosione che un sistema complesso e ancora poco rodato come quello europeo corre costantemente. Come l’esplosione, l’implosione, quando accade, è molto rapida. Può prendere la forma di una crisi di fiducia nelle banche e di corsa al ritiro dei depositi. I salvataggi bancari del 2009 sarebbero oggi più difficili e costosi e fiaccherebbero i bilanci pubblici già appesantiti dalla crisi.
Mantenere in portafoglio ampie quantità di titoli governativi (europei, americani o asiatici cambia poco) ha davvero poco senso nel momento in cui le remunerazioni reali sono negative e i rischi, per contro, non sono trascurabili.
Chi investe deve avere chiaro che il rischio e la volatilità sono due cose completamente diverse. Se ho una casa, ho il rischio che vada a fuoco, che subisca un terremoto, che i ladri la distruggano o che crolli. Su un piano completamente diverso so che il prezzo di mercato della casa fluttua nel tempo a seconda dei cicli economici.
Quando si tratta di beni reali la distinzione tra questi due piani è ben chiara. Quando si parla di finanza e, in particolare, di tasso fisso, subiamo tutti, chi più chi meno, una regressione cognitiva che ci fa apparire sicuro, nel senso di poco rischioso, quello che è solo poco volatile.
Il massimo della soddisfazione lo percepiamo, ancora più che nei titoli governativi, in quei tassi bancari più o meno civetta che sembrano offrire il riposo più tranquillo unito a un rateo costante ed elevato, con zero volatilità.
Le vicende degli ultimi tre anni mostrano però che quello che è da sempre tranquillo (e che gli indicatori statistici, sempre calcolati ex post, confermano come tale) può in certi casi rivelarsi estremamente rischioso. Come una casa che si è apprezzata per anni con regolarità (e che quindi viviamo come se fosse il migliore investimento del mondo) e che una mattina troviamo distrutta da un incendio.
Un utile esercizio per curare questo disturbo cognitivo è quello di abituarsi a calcolare le performance a fine anno anche in dollari, oro, renminbi o, meglio ancora, in un paniere di valute. Per i portafogli medi e grandi, del resto, non ha nessun senso particolare usare la valuta di casa piuttosto che un’altra. Si noterà, con questo esercizio, che portafogli che apparivano di granito si mettono a fluttuare come zolle tettoniche sulla crosta terrestre. Si fa una tragedia se un portafoglio che aveva iniziato l’anno a 100 lo finisce a 99.5 invece che a 100.5 e poi si scopre che, usando un altro metro, il risultato è completamente diverso.
Bisogna in altre parole abituarsi a essere più rilassati, perfino moderatamente fatalisti, sulla volatilità e a essere per contro molto più occhiuti sulla solidità di quello che si va a comprare.
Con questo spirito la parte tranquilla del portafoglio andrebbe investita in debito di paesi con i conti in ordine come l’Australia, il Brasile o il Canada, che rendono anche molto di più di quelli di Europa e Stati Uniti. Ci sarà volatilità del cambio, verrà all’inizio un leggero mal di mare, ma ci sarà in compenso la certezza di avere indietro il capitale con il suo potere d’acquisto sostanzialmente integro.
Per il resto del portafoglio, la parte più aggressiva, le azioni vanno benissimo. Fluttuano, e come se fluttuano, ma hanno sempre dimostrato di reggere molto meglio dei governativi le fasi di repressione finanziaria come quella in cui ci troviamo a vivere.
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