NELL’ILLUSTRARE l’analisi economica che ha motivato la decisione della Bce di mantenere invariati i tassi di interesse, Duisenberg non ha quasi parlato del cambio col dollaro. Ha detto solo che la sua forza contribuirà a mantenere bassa l’inflazione. Eppure il cambio è questione cruciale per l’economia europea e mondiale.
La debolezza del dollaro è grave e strutturale. E’ più grave di quanto dica il livello attuale del cambio con l’euro. E’ più strutturale di quanto possano suggerire brevi rimbalzi e rafforzamenti. Deriva da un enorme disavanzo della bilancia dei pagamenti correnti statunitense che dura da tempo e non sarà possibile eliminare presto. Dalla metà degli Anni 80 gli Usa spendono più di quanto producono e finanziano la differenza indebitandosi col resto del mondo. Durante lo scorso decennio ciò è stato facilitato dalla bolla della «new economy» che ha attratto in America tanti investimenti reali e finanziari. Ma ora, anche se la crescita al di là dell’Atlantico rimane migliore che in Europa, ciò non è più sufficiente per giustificare gli acquisti netti di dollari necessari per coprire un disavanzo che tende a superare il 5% del Pil Usa. La caduta del dollaro è favorita anche dal segno fortemente espansivo delle politiche economiche Usa che potrebbero essere accusate di scaricare all’estero gli squilibri macroeconomici del paese. Oggi è veramente poco originale incolpare gli Usa di unilateralismo. Ma c’è anche un elemento di unilateralismo macroeconomico nel loro comportamento, un elemento di miopia che trascura l’equilibrio di lungo periodo.
Come in altri campi l’Europa dovrebbe reagire, formulando una strategia precisa e proponendo agli Usa i termini per una cooperazione che guardi all’interesse globale. Non conviene nemmeno agli americani aspettare che la situazione si autocorregga con l’aggiustamento del cambio e il sacrificio dell’export europeo. Sarebbe una via lunga e dolorosa per tutti, sulla quale si inserirebbero gravi episodi speculativi. Pur senza mirare ad un regime di cambio fisso, inopportuno e impossibile, il valore del dollaro dovrebbe diventare uno dei parametri di un discorso di concertazione transatlantica delle politiche economiche. Un discorso per l’agenda di un «G2» paritario, nel quale rientri anche il monitoraggio dello squilibrio del commercio americano, la cui gravità è tale che ad altri paesi procurerebbe visite preoccupate dei funzionari del Fmi.
Non è un discorso che spetta alla Bce (anche se la politica monetaria ne verrebbe influenzata e Duisenberg dovrebbe parlarne) ma alla Commissione e al Consiglio. E’ uno degli elementi di quella strategia comunitaria di politica economica che l’Unione non riesce ad esprimere perché il funzionamento delle sue istituzioni manca di ambizione, coesione ed efficienza.
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