(WSI) – Le previsioni di crescita per i prossimi due anni parlano di aumento del pil pari all’1,9% per l’area euro, di circa il 4 per gli Stati Uniti, e vedono l’Italia al di sotto della media dell’area Euro. Se guardiamo a quanto accaduto dal 1990 ad oggi, l’Italia è sempre cresciuta più lentamente della media dell’area Euro, che a sua volta si è sviluppata meno degli Stati Uniti. Sono pertanto 15 anni che l’Italia si sviluppa ai valori più bassi europei. E’ un dato preoccupante.
Ci sono diverse ragioni. La prima è legata all’andamento di produttività e ore lavorate. Queste ultime sono scese in modo straordinario in Europa rispetto agli Stati Uniti. Nei primi anni ‘70 da noi si lavorava circa quanto gli americani; oggi, in Francia e Germania, si è impegnati circa 400/500 ore all’anno in meno per persona in età lavorativa. In Italia si è occupati un po’ di più che in Francia e Germania, ma sempre molto meno che negli Stati Uniti.
Lavorare meno è dunque possibile? Sì, se la produttività per ora lavorata aumenta in modo da compensare la riduzione totale delle ore d’impegno. Purtroppo la produttività è aumentata, ma non tanto da compensare questa riduzione nel numero complessivo di ore lavorate.
Allora perché sono scese? Una risposta potrebbe essere che i Paesi europei, diventando più ricchi, decidono di lavorare meno per godere di maggiore tempo libero. In realtà ci sono due distorsioni che influenzano l’andamento delle ore lavorate. Una sono le aliquote marginali sul reddito, che dai primi del ‘70 in poi sono salite in tutti i Paesi europei. Il secondo aspetto è l’aumento delle settimane non lavorative. L’alta correlazione tra ore lavorate in diversi Paesi europei, e in generale nei Paesi Ocse, sta nell’indice di sindacalizzazione. I sindacati hanno utilizzato la politica del «lavorare meno lavorare tutti» negli anni ‘80 e ‘90 e questo ha comportato un aumento del costo orario. Cioè, lavorando meno a parità di salario complessivo. La Confindustria conosce bene i problemi della rigidità del mercato del lavoro: l’Italia ha una flessibilità più bassa di quasi tutti gli altri Paesi, degli Stati Uniti e di tutti gli altri Paesi europei.
Il secondo punto è la composizione del Pil. Negli Stati Uniti tre quarti del Pil è nel settore dei servizi, in Europa è circa i due terzi. L’Italia è sotto la media europea. Questo fa sì che l’economia americana sia molto più indirizzata verso i servizi di quanto lo sia l’europea. Parte dei motivi derivano dalla maggiore regolamentazione del settore dei servizi in Europa e in una maggiore estensione della proprietà pubblica. Le barriere all’entrata sono scese in quasi tutti i Paesi, ma più in quelli anglosassoni. E sono cominciate a scendere molto più tardi, e molto meno, in sistemi come l’Italia e la Francia. Secondo gli indici Ocse, l’Italia ha ancora il settore dei servizi più regolamentato dal punto di vista delle barriere all’entrata.
Il discorso dei servizi è importante perché, in un momento in cui le esportazioni sono a rischio per colpa dell’andamento del dollaro, credo che il settore dei «non-tradeables» sia importante per la composizione industriale.
Una parola sull’andamento del dollaro di cui si parla molto. Il deficit americano rimarrà e spingerà il dollaro al ribasso. Non dimentichiamo, quando critichiamo gli Stati Uniti per il «twin deficit», che una delle poche fonti di crescita per le economie europee in generale, e italiana in particolare, sono state proprio le esportazioni verso gli Stati Uniti, cioè il deficit americano ha sostenuto la crescita in Europa negli ultimi due anni. Se adesso l’Europa ne paga le conseguente la colpa è anche sua.
Il terzo punto è «burocrazia e giustizia». Per l’Italia un discorso strutturale di cui si parla poco, troppo poco. Perché il funzionamento del sistema giudirico è ben peggiore di quello di altri Paesi europei, nonostante l’alto livello di spesa per la burocrazia e la giustizia in Italia. Alcuni dati sono straordinari. Uno si riferisce al tempo in giorni lavorativi necessario per registrare una impresa in una serie di Paesi, in questo caso Paesi Ocse: occorrono due giorni in Canada e Australia, tre in Nuova Zelanda, quattro negli Stati Uniti, e 62 in Italia. Inoltre costa circa 40 volte di più creare un’impresa in Italia che in Nuova Zelanda, il 20% rispetto a Canada e Danimarca. Il sistema giuridico è in condizioni analoghi. Due esempi. Uno è il tempo necessario per sfrattare un inquilino insolvente: 44 giorni in Australia, 49 negli Stati Uniti, e 630 in Italia. L’altro è legato alla riscossione di assegno emesso a vuoto: 54 giorni negli Stati Uniti e 645 in Italia. Quindi, anche qui, c’è un sistema giuridico civile e commerciale che non funziona.
Passiamo alla spesa per la ricerca. Secondo l’Ocse, l’Italia spende poco meno della media europea e la percentuale della spesa pubblica per ricerca è relativamente elevata. L’Ue investe meno degli Stati Uniti, ma il problema è che in Italia la spesa privata per la ricerca è particolarmente bassa. La ricerca universitaria è un punto cruciale. La spesa per educazione terziaria, cioè l’Università, in Italia è bassa, tra le più basse d’Europa, ma non molto più che in Inghilterra. Viene da chiedersi se la soluzione per l’università italiana sia dare più soldi all’Università italiana. Non è così evidente.
La spesa per l’Università, sia per studente sia per professore in Italia, non è inferiore a quella dell’Inghilterra, mentre la produttività della spesa universitaria è molto più contenuta. Dare più fondi all’Università italiana, sia pubblici, sia privati, non è necessariamente la risposta completa. Non mancano i soldi, manca la concorrenza del sistema universitario, c’è un’assenza di concorrenza all’interno del settore pubblico, e dal settore pubblico al sistema privato. La carenza di competizione è un po’ l’aspetto generale dell’economia italiana: significa difesa della lobby dei professori universitari e barriere all’entrata dei privati.
Sin qui gli aspetti strutturali. Vorrei concludere con alcuni suggerimenti per la Confindustria come organizzazione.
Primo. Si deve evitare «il marasma della concertazione», cioè non sedersi al tavolo delle trattative con il governo per chiedere questo o quel favore. Esistono ancora vasti sussidi alle imprese private o semiprivate, si aggirano tra i 30 e i 50 miliardi di euro nel 2003 a seconda di come li si conta. Sono persuaso che l’industria italiana debba imparare a vivere senza sussidi pubblici. Invece di sussidi pubblici, la Confindustria dovrebbe chiedere la riduzione delle aliquote e la liberalizzazione dei mercati. Attenzione, però: tutti a parole sono a favore della liberalizzazione, ma questa significa anche, e soprattutto, eliminare le barriere all’entrata, cosa che non fa piacere alle aziende già sul mercato. La Confindustria, come rappresentante della aziende già sul mercato, deve muoversi su questo punto con cautela, ma allo stesso tempo con decisione, perché eliminare barriere all’entrata aumenta la competizione di chi non esiste ancora.
Secondo. Gli sgravi fiscali. C’è molta discussione sul ridurre le aliquote alle imprese o alle famiglie. Mi pare sia eccessiva l’enfasi sulla differenza tra le due, perché mentre una riduzione sulle aliquote delle imprese ovviamente va a loro vantaggio, indirettamente una riduzione delle aliquote alle famiglie può anche essere un beneficio per le imprese, non solo per l’effetto dal lato della domanda, ma anche per l’offerta. Al sindacato interessa il salario portato a casa, cioé al netto delle imposte. Una riduzione delle imposte sul reddito aumenta il salario netto a parità di salario lordo, quindi riduce la pressione dal lato dei costi per le imprese. Per questo dico che nel dibattito spesso c’è un’eccessiva enfasi sulla differenza tra aliquote alle imprese e alle famiglie.
Un altro aspetto interessante o preoccupante della struttura istituzionale italiana è la ridotta proporzione dei fallimenti in Italia, la più bassa dei Paesi Ocse, in parte anche causa di una legislazione sul fallimento punitiva. Apparentemente questo sembrerebbe un bene, ma non lo è. Si deve spostare l’enfasi dall’idea del salvataggio al fatto di considerare normale che imprese entrino ed ed escano dal mercato in una concorrenza quasi darwiniana, per cui resistono i migliori e la concorrenza aumenta creatività, produttività e sviluppo tecnologico.
Per concludere, pessimismo o ottimismo? Io credo che, per quanto riguarda l’Europa, nel breve periodo sia difficile essere ottimisti, i dati in nostro possesso fanno prevedere tempi duri. Un maggiore ottimismo può venire per il medio e lungo periodo, almeno per i paesi nordici, l’Irlanda e la Spagna. Per l’Italia sono preoccupato. Sono pessimista per il breve periodo. E anche nel lungo o medio, perché non vedo segnali di cambiamento o di scossa.
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