Società

L’industria italiana che riesce a farcela battendo anche i cinesi

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news
Il contenuto di questo articolo – pubblicato da La Stampa – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Roma – «Chiampo Valley», dove prima c’era il classico distretto. Ricerca applicata per dare continuità all’intuizione dell’imprenditore, filiera «green» dietro alla battistrada Fiamm che ha sviluppato le innovative batterie al sale, un progetto di banda ultralarga per tutta la vallata, piani di finanziamento d’impresa con fondi di private equity e riqualificazione geo-ambientale.

Nell’estate calda dello spread e del profondo rosso industriale, bisogna attaccarsi ai segnali deboli per vedere un po’ di luce in fondo al tunnel. Arzignano da quarant’anni è il polo mondiale della concia per calzature e arredamento. Un territorio stretto nei 20 chilometri che separano Montebello da Chiampo punteggiato di concerie grandi e piccole, botteghe artigiane e indotto diffuso, che vale ancora il 35% della produzione europea di pellame ma che il crollo della domanda di arredamento imbottito di fascia media sta costringendo a reinventarsi.

«Per decenni – spiegano dalla Cgil locale – questa è stata una specie di valle dell’oro: stipendi generosi per tutti e profitti per gli imprenditori. La ricchezza era palpabile. La potevi vedere nelle case, nelle ville, nel territorio». Un eldorado piegato dalla concorrenza asiatica, dalla crisi mondiale e da frodi fiscali e scandali scoperchiati negli ultimi anni. Un «vizietto» incubato fin dagli anni Sessanta, quando Arzignano era ancora zona depressa: prima dell’esplosione di concerie (primi anni Ottanta) e della corsa degli operai ad uscire dalle aziende più grandi per farsi a loro volta padroncini, con lo zelo tipico della cultura contadina. Sabati e domeniche in fabbrica: niente turni, esistono solo straordinari. Il «nero» nasce così, dal fuori busta che diventa la «droga» per stare dietro alla produzione. Il Bengodi continua fino all’introduzione dell’euro. Senza più svalutazioni competitive, le aziende sono costrette ad abbassare i costi: alcune usano il trucco di «inventarsi» risorse, fino alla deriva ultima delle «cartiere», costruite da professionisti delle false fatturazioni. Un danno d’immagine tremendo.

Per tutti i primi anni duemila, la produzione ad Arzignano continua a crescere insieme ai fatturati. Quel che cala sono gli utili. «Il 2003-2004 è stato l’anno di maggior produzione – ammette un grosso industriale della zona – ma dal punto di vista dei risultati è stato uno dei peggiori. Sottopelle le aziende continuavano ad indebitarsi per gli effetti di una scarsa capitalizzazione». Il tallone d’Achille del nostro capitalismo.

La crisi insomma è già incorporata in un distretto che vive una concorrenza interna fortissima sul prezzo. Si cerca di offrire la merce ad un centesimo menodel tuo vicino, scatenando cannibalismi. A quel punto arriva la recessione mondiale: crollano fatturati (-35%), chiudono imprese (-200), duemila appartamenti vengono messi in vendita o passano a banche e finanziarie per mutui protestati e molti immigrati (il 20% della popolazione di Arzignano è extracomunitaria) sono costretti a rimandare a casa le proprie famiglie e tornare a vivere sotto uno stesso tetto in 4-5, come all’inizio.

Eppure dietro allo sboom e agli scandali il distretto piano piano si diversifica: la chimica e la metalmeccanica si affiancano alla concia, preponderante ma oggi “solo” il 35% del comparto Arzignano-Montecchio; la platea industriale dimagrisce ma si densifica attorno ai grandi gruppi del territorio; Dani, Rino Mastrotto Group e Conceria Montebello avviano le certificazioni ambientali Epd per la produzione di pelle «green»; e si investe in tecnologia, depurazione delle acque e degli scarichi aeriformi, formazione tecnico-professionale e nuovi mercati come quello indiano.

In questo modo Arzignano riesce a tenere le stesse quote di mercato del 2005 nonostante 3.500 addetti e 200 imprese in meno, segno che è in corso una razionalizzazione virtuosa. Nel 2011 torna a soffiare anche l’export (1,7 miliardi di euro, +14,4% rispetto al 2010). Nel primo trimestre 2012 la crescita rallenta, causa frenata della domanda di beni intermedi nei paesi Brics, ma il riposizionamento sta gradualmente avvenendo.

Arzignano indica così la rotta per la nostra manifattura al tempo dello spread, se si vuol competere sui mercati globali. E, soprattutto, tornare a crescere.

Copyright © La Stampa All rights reserved