Società

L’ INCAVOLATURA
DEI RIFORMISTI DOC

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(WSI) – Il morning after dei riformisti dopo la “svendola” pugliese è come quello di Jane Fonda nell’omonimo film di Lumet, che dopo una notte di bagordi si risveglia accanto a un morto. Lo sconforto si trasforma in risentimento, che a sua volta si trasforma in un processo. Da Prodi che «non fa il leader» riformista; ai Ds che non hanno investito nella cultura politica riformista, preferendo i consensi congressuali bulgari alla battaglia politica. L’occasione è offerta dalla presentazione della raccolta dei saggi intitolata – manco a dirlo – Le riforme dei riformisti. Ci sono tutti o quasi: da Nicola Rossi a Enrico Morando, passando per Claudia Mancina, Stefano Ceccanti, Tiziano Treu e Claudio Petruccioli.

Per l’economista diessino Nicola Rossi, «le scelte politiche compiute in Puglia sono state a dir poco insensate. Abbiamo dato l’idea di voler imporre dall’alto una candidatura, anzi più d’una, e il nostro stesso elettorato ci ha punito». Il problema è a monte ed è un problema di mancanza di coraggio. Soprattutto all’ombra della Quercia. «È finita l’epoca di nascondersi dietro la bandiera dell’Ulivo – prosegue Rossi – Non esistono pasti gratis, ma i Ds si sono rifiutati di pagare il prezzo politico di una vera e dura battaglia in nome del riformismo, il gruppo dirigente ha preferito vasti e facili consensi. Il risultato è che qualsiasi candidato riformista, di fronte ad una competizione vera, sembra slegato da ogni opzione politica. Al riformismo servono delle battaglie, deve mostrare le differenze rispetto ai “radicali”. Ma mi dite quali differenze si possono vedere in un congresso che si vince con l’80 per cento? La battaglia era difficile e non si è voluto combatterla».

Gli fa eco Enrico Morando. «È un problema di identità politica. Ossessionati dai grandi numeri dei congressi, i Ds non hanno mai operato le rotture necessarie ad innovare la loro cultura politica in senso riformista. Per questo il riformismo viene percepito dalla base come un adeguamento al moderatismo». Il costituzionalista Stefano Ceccanti è d’accordo. «È mancato il coraggio di fare delle scelte nette. Per questo, l’immagine del riformismo oggi è ancora blanda, deformata. Chi vuole una leadership riformista deve rischiare». E ancora: «Il tatticismo di breve periodo alla Rutelli, che confonde l’eguaglianza con l’egualitarismo, non aiuta di certo e aumenta la confusione. Cosa dirà Rutelli quando tra qualche settimana i socialdemocratici portoghesi vinceranno le elezioni?».

Il commento più amaro tocca a Claudia Mancina, che per denunciare la leadership «non esercitata» da Prodi tocca uno dei tasti più dolenti in casa Fed: la bioetica. «È paradossale che, sulla fecondazione, mentre il vescovo Ruini fa il capopartito dettando ai suoi una linea politica, il politico Prodi fa il vescovo, appellandosi ad una libertà di coscienza che, tra l’altro, nessun politico può dare o togliere. Non è il modo giusto di parlare al paese. A questo proposito, le primarie pugliesi sono un caso emblematico di elettori che bocciano la loro classe dirigente, locale e nazionale».

Tiziano Treu commenta con amarezza: «Prima di fare la terza via, Tony Blair ha dovuto spaccare il Labour per innovarlo. E noi, dove la mettiamo l’innovazione? Nella Fed, in cui Rutelli deve procedere per provocazioni e Prodi a dosi omeopatiche?». Per il presidente della commissione di vigilanza Rai, Claudio Petruccioli, «per affrontare le primarie bisogna ragionare fuori dai partiti. Proprio perché l’elettore va alle primarie con lo spirito di chi dice “oggi decido io”». Tutti vorrebbero un candidato riformista alle primarie, visto che Prodi fa un altro mestiere. Lo partoriranno?

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