Società

L’IMMORALE DEVOLUTION

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(WSI) – Le parole, ha scritto Elias Canetti, hanno una coscienza, ovvero una propria moralità. Una lezione che lo scrittore mitteleuropeo aveva imparato da Karl Kraus. La parola «devolution», usata in questi anni e mesi per indicare la delega di competenze dallo Stato alle regioni italiane – scuola, sanità, fisco, polizia, ecc. – tradisce una palese immoralità. Lo ha notato qualche giorno fa lo scrittore Claudio Magris commentando negativamente l’uso di questo termine inglese al posto dell’italiano «devoluzione».

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Non è un fatto di purismo, ma una sorta di provincialismo inconscio che agisce nel termine stesso. Chi utilizza questa parola, per definire la trasmissione di un bene e di un diritto dallo Stato alle Regioni, deve saperlo bene: il significato letterale della parola è «far rotolare giù». Di questo esattamente si tratta.

Provate a pensare cosa significherà in una regione come la Calabria, che lamenta di essere stata abbandonata dallo Stato, il passaggio di poteri così importanti a enti locali che sovente risultano infiltrati, se non proprio conniventi, dalle mafie e dai poteri criminali. L’Italia sta davvero rotolando giù, verso il basso. Magris sottolineava l’uso dell’inglese per «fare l’americano», per darsi un’aria straniera, anglosassone, da frequentatori di paesi esteri, anche se poi si abita nel Varesotto o a Viterbo. Tradisce una voglia di internazionalità là dove invece la cultura è quella da strapaese, una volontà di globalismo che è invece provincialismo. Perché parlare di «devolution» invece di riforma federale? Semplicemente perché non è affatto una riforma federale: le parole hanno una coscienza. L’inglesismo «devolution» è una parola che svia dai veri contenuti, una parola-baule che sembra dire tanto – suona bene in bocca – ma in realtà non dice nulla, assomiglia a una delle parole della pubblicità: vuote di significato proprio. È come certi ristoranti che per darsi un tono trasformano il vecchio nome, a volte persino un toponimo, de La strada in On the road: una falsa modernità.

«Devolution» tradisce la volontà di ingigantire, oltre che sviare; come chiamare «governatori» i presidenti delle Regioni che nella forma e nel contenuto non assomigliano in nulla ai governatori degli stati americani. Il vero problema è quello del provincialismo, antica malattia italiana. Sono nato, come la maggior parte degli italiani, in una piccola città, a cui sono caparbiamente attaccato, anche se adesso abito altrove. Mi sento emiliano, se questo vuol dire qualcosa. So bene infatti che la mia regione tra il Rinascimento e l’unità d’Italia non ha più portato quel nome. Tanti secoli di assenza, poi Farini, l’uomo politico che garantì il referendum dell’annessione e il passaggio allo stato unitario, la reintrodusse e si proclamò dittatore dell’Emilia. Molti dei confini delle regioni italiane sono stati tracciati in modo curioso e complicato da una serie di geografi dopo il 1860. Solo per restare alla Pianura padana, un intelligente storico romagnolo, Roberto Balzani, pochi anni fa, ha dimostrato in un libro (Romagna, il Mulino) che la sua regione, la Romagna, è un’invenzione recente, come lo stereotipo del romagnolo, sanguigno, volitivo, generoso.

Piero Camporesi, scrittore e storico della cultura, oggi purtroppo dimenticato, in un saggio ha descritto le origini di questo stereotipo. Adesso si vuol trasformare la Romagna in un’entità a sé; la Lega se ne è fatta promotrice. Sarà un fatto amministrativo, forse, non certo storico; un altro localismo in più, come la creazione delle nuove province, un ente che fino a quindici anni fa si pensava di abolire e che invece oggi si è moltiplicato ovunque. Il problema è ancora il provincialismo. Mi sento molto provinciale, molto paesano; il mio provincialismo è stata la chiave per entrare nel mondo, fuori dai confini della città in cui sono nato. La «devoluzione» è esattamente il contrario: è il modo per riprecipitare nel localismo peggiore, in una forma sottile di razzismo verso gli altri, i diversi, i lontani, quelli che abitano magari a pochi chilometri da noi, al di là del fiume.

Si può coltivare il culto del proprio particolarismo solo se si comprende, come ci hanno spiegato gli antropologici (ad esempio F. Remotti in Contro l’identità, ristampato da Laterza), che l’identità è qualcosa di provvisorio, un carapace, un’armatura, con cui ci si barda e ci si difende per andare nel mondo, in modo provvisorio e ovviamente transitorio. È un difficile bilico che la «devoluzione» distrugge disfacendo qualcosa che è parte della nostra complessa storia individuale e collettiva a vantaggio di un tribalismo incerto e maldestro. «Le diversità sono il modo in cui si articola l’unità umana, come un albero la diversità delle sue foglie», recita una frase di Herder, citata da Magris. Con la «devoluzione» cadono le foglie del nostro albero nazionale. Bisognerà attendere primavera per rivederle spuntare?

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