Inizia ad aprirsi il temuto gap tra i listini europei e Wall Street? E’ quanto sembrava concretizzarsi ieri, a
giudicare dal netto scivolone registrato dalle Piazze continentali (-2,6%), sotto la guida di Francoforte (-4% circa),
nonostante la iniziale tenuta dell’America, poi ugualmente messa in dubbio nel finale. Qualcuno potrebbe
sostenere che l’andamento relativo dei vari indici è stato falsato dall’effetto cambio, nel senso che il –1% dell’S&P
500 e il –1,1% del Nasdaq espressi in un euro rafforzatosi non sarebbero apparsi così difformi dalle più pesanti
performance dell’Europa.
Ma il vero problema di fondo – le divergenti politiche economiche in grado di sostenere
e rilanciare l’attività economica ed i loro riflessi sui tassi di cambio relativi – a nostro avviso sta iniziando ad
affacciarsi e continuerà a far sentire i suoi effetti sui mercati. Ieri, più che la decisione della BCE di non tagliare i
tassi – in teoria già ampiamente prevista, così come è ormai scontato che il taglio abbia luogo in giugno, magari
toccando il mezzo punto – ha pesato la reazione del dollaro, balzato da quota 1.135 ad oltre 1.15 contro euro.
Ad
essere sinceri, anche questo era un evento prevedibile e a stupire, più che la reazione degli investitori, è semmai
come la BCE non l’abbia preso in considerazione nel decidere sui tassi: rimanere fermi, mantenendo un
significativo differenziale di rendimento a vantaggio dell’euro rispetto al dollaro, in questa fase significava
accentuare gli afflussi di liquidità sulla valuta continentale, con tutte le spiacevoli conseguenze del caso sulle
economie direttamente interessate.
Insomma, l’immobilismo equivaleva ad adottare una politica monetaria
restrittiva, non neutrale. Tutte queste preoccupazioni non hanno però sfiorato più di tanto Duisenberg e i suoi
colleghi della Banca Centrale, ossessionati da un rischio inflazione di cui è sempre più arduo trovare evidenza
concreta. Per non apparire ridicoli, i nostri vigilantes hanno così pensato bene di apportare qualche cambiamento
ai loro modelli teorici, buttando a mare il pilastro della massa monetaria, che già da lungo tempo appariva privo di
valenza empirica, e modificando quello relativo all’inflazione, non più vincolata al tetto del 2%, ma solo all’essere
“vicina al 2%”. Forse questo escamotage darà in futuro un po’ più di flessibilità all’Istituto, ma il rischio, come nel
caso del Giappone, è che a furia di attendere la certezza che l’inflazione sia davvero morta gli strumenti di politica
monetaria potrebbero alla fine risultare del tutto inefficaci all’altra finalità, quella del rilancio dell’attività economica.
Il caso della Germania è emblematico: con il brusco calo degli ordini manifatturieri (-3,9% in marzo), la
continua ascesa dei disoccupati (altri 44mila in aprile) e lo scarso rimbalzo della fiducia di imprese e
consumatori nonostante la fine conflitto iracheno, la maggiore economia continentale si sta dirigendo
con tutta probabilità in una nuova recessione, analoga a quella già vissuta a fine 2001. Il vero problema qui
non è tanto il ripresentarsi di una blanda, temporanea defaillance congiunturale, quanto la replica della
drammatica esperienza giapponese, con la quale la Germania sembra avere molti più punti di contatto che nel
caso di qualsiasi altro Paese dell’Occidente industrializzato.
Un Governo paralizzato dai vincoli di bilancio e dagli
impegni presi con gli elettori, desiderosi di difendere le conquiste di un fin troppo generoso Stato sociale,
l’incapacità di mettere mano a riforme strutturali ed una politica economica – di bilancio e monetaria –
relativamente rigida potrebbero portare l’economia tedesca a ripercorrere la strada del Giappone, nonostante le
differenze strutturali tra i due Paesi e le peculiarità di quel caso.
Tutto ciò giustifica la maggiore volatilità della
Borsa tedesca, destinata pertanto a registrare una peggior performance nel caso in cui gli scenari dovessero
volgere al peggio; ma non ci esime purtroppo dall’ignorare i rischi che potrebbero scaturire da un simile evento
anche per noi, visto il ruolo chiave della Germania nell’ambito europeo. E’ vero, tagliare i tassi non risolve i
problemi strutturali dell’area, ma non tagliarli, in questa fase, significa amplificare le difficoltà e ostacolare la
ripresa tramite il rafforzamento del cambio.
Il mezzo punto di taglio a giugno diventa così un elemento
indispensabile per rimanere ottimisti sui mercati europei, sempre sperando che la FED non decida di fare
altrettanto: nel qual caso la caduta del dollaro potrebbe proseguire e con essa si accentuerebbero anche le
pressioni sulle maggiori realtà industriali della nostra area.
*Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim.