Società

L’EUROPA CHIAMATA
A RICUCIRE
GLI STRAPPI

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È stato detto ripetutamente nelle scorse settimane che la crisi irachena ha fortemente intaccato l’autorità delle Nazioni Unite e spaccato l’Unione europea. È certamente vero.

Ma quel severo giudizio rifletteva il timore con cui molti consideravano la prospettiva di un conflitto e al tempo stesso la speranza che le due organizzazioni potessero ancora, con un colpo di reni, costringere l’America a rivedere la sua politica.

Oggi, dopo l’inizio di un conflitto che nessuno è in grado di fermare, possiamo forse dare prova di maggiore distacco. L’Onu è stata certamente trascurata e umiliata. Ma la sua sorte dipende, in ultima analisi, dagli effetti della guerra.

Se gli americani elimineranno il regime di Saddam senza distruggere il Paese, se riusciranno a preservare l’integrità territoriale dell’Iraq e se eviteranno che la guerra abbia gravi ricadute sulla stabilità della regione, Washington potrà sostenere che la maggiore organizzazione internazionale ha dato prova, in questa faccenda, di miopia e inettitudine.

Se il conflitto sarà lungo, sanguinoso e carico di conseguenze impreviste, le Nazioni Unite appariranno, agli occhi di una larga parte dell’opinione pubblica mondiale, come l’organizzazione in cui sarebbe stato saggio continuare a trattare, con altri mezzi, la soluzione del problema iracheno.

Qualche giorno fa Hans Blix, capo degli ispettori dell’Onu, ha detto a un giornalista, con un sorriso, che era molto curioso di sapere se gli americani, entrando in Iraq, sarebbero riusciti a trovare le armi di sterminio che egli aveva continuato a cercare fino a qualche giorno prima.

Anche Kofi Annan, interrogato sulle sorti della sua organizzazione, potrebbe rispondere più o meno negli stessi termini: «Vedremo se gli americani riusciranno a fare meglio di noi».

L’Europa si è certamente spaccata. Non ci siamo divisi sulla natura del regime di Saddam (tutti erano convinti che fosse pessimo) o sulla sua pericolosità (nessuno, nemmeno gli inglesi, pensava che rappresentasse oggi una minaccia per la sicurezza della regione e delle democrazie occidentali).

Ci siamo divisi su un problema più delicato: i rapporti con gli Stati Uniti. E abbiamo constatato che vi sono forti divergenze fra i singoli Paesi sulla natura delle relazioni che l’Unione dovrebbe avere con l’America.

Ma l’ultimo vertice di Bruxelles, alla fine della scorsa settimana, ha dimostrato che l’Unione non può permettersi di lasciare che tali divergenze provochino una crisi irreparabile.

Talleyrand diceva che a tavola, quando la conversazione cade su una questione troppo controversa, è meglio «parlare dell’elefante», vale a dire di un tema su cui tutti possono conversare amabilmente senza correre il rischio di venire alle mani.

A Bruxelles i capi di Stato e di Governo dell’Unione hanno fatto qualcosa di meglio. Hanno affrontato i problemi che maggiormente li concernono: l’incidenza della guerra sul mercato petrolifero e sul Patto di stabilità (l’accordo che fissa i limiti tollerabili del deficit nei singoli bilanci nazionali), la tassazione dei prodotti energetici, il brevetto comunitario, le riforme necessarie allo sviluppo dell’Europa nei prossimi anni.

Non è stata una riunione trionfante, ma ha dimostrato che i membri dell’Unione hanno ormai creato un importante numero di beni europei da cui dipende la loro prosperità e che possono essere gestiti solo collegialmente: il mercato unico, la moneta unica, lo spazio aereo, la politica commerciale con il resto del mondo, la politica dell’agricoltura e delle infrastrutture.

La guerra irachena ha confermato che l’Europa è politicamente divisa. Ma ha provato che vi sono settori importanti della vita economica e sociale in cui è ormai indivisibile.

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