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L’euro sta male, ma il dollaro non si sente mica tanto bene

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A Bruxelles un vistoso rattoppo che terrà per un poco ma che rischia di rendere necessari altri interventi. A Washington un vistoso strappo tra Camera e Presidente che fa sorgere interrogativi sulla tenuta del dollaro. Se ne ricava l’impressione di una crescente incapacità dei Paesi ricchi di governare il sistema monetario mondiale, il che getta ombre lunghe sui meccanismi della globalizzazione.

Il sofferto accordo sul debito greco, raggiunto giovedì sera a Bruxelles dopo una trattativa difficile ed estenuante, è ricchissimo di codicilli e molto povero di idee, un accordo senza vincitori, dal quale tutti escono un po’ sconfitti. Non possono esserne soddisfatti i greci, i quali, pur avendo ottenuto sconti sugli interessi da pagare e un paracadute sul loro enorme debito, vedono nel comunicato finale la conferma della condanna della loro economia, non certo florida, a un lungo periodo di stagnazione e difficoltà. E neppure le banche creditrici, costrette a sottoscrivere «volontariamente» i nuovi titoli del debito pubblico greco man mano che quelli vecchi giungeranno a scadenza, con una correzione al ribasso degli utili previsti. Non esultano i tedeschi sui quali, indirettamente, ricadrà una parte del peso della manovra, e non sono allegri neppure i francesi che non sono riusciti a far passare l’idea di una tassazione europea.

I mercati internazionali rimangono scettici e l’opinione pubblica nervosa.
L’accordo avviene all’insegna di una ampia politica di tagli, che si tradurranno in un freno aggiuntivo all’economia, proprio mentre l’Europa ha bisogno di stimoli alla crescita.

Non è solo la Confindustria a delineare la prospettiva inquietante di una produzione nuovamente stagnante nel terzo trimestre del 2011, in Germania gli indici di fiducia delle imprese sono bruscamente scesi ai valori di fine 2010 e analoghe cadute di fiducia si registrano tra le imprese francesi. Ottenere la stabilità dell’euro al prezzo di una stagnazione non sembra certo la più lungimirante delle politiche; anzi, non è neppure una politica, bensì una sorta di ondeggiamento continuo, senza una direzione precisa, da parte di un’Europa che non riesce a darsi una strategia per il proprio futuro.

In realtà, l’Europa è su un piano inclinato. Può uscirne verso l’alto con la rinuncia dei vari Paesi dell’euro a una parte della loro sovranità in materia di politica economica a favore di un governo centrale, e quindi con l’europeizzazione di importanti capitoli nazionali di spesa pubblica e di importanti entrate fiscali; oppure può uscirne verso il basso, ricreando il sistema monetario europeo, con l’euro al centro e una moderata possibilità di fluttuazione delle valute nazionali. In ogni caso non può restare, e non resterà, perennemente immobile.

La prospettiva risulta ancora più complessa in quanto le difficoltà dell’euro sono contestuali alle difficoltà del dollaro. A Washington è in corso ormai da mesi un incredibile braccio di ferro tra il presidente Obama e la maggioranza repubblicana della Camera dei Rappresentanti che si rifiuta di innalzare il tetto del debito pubblico (che negli Stati Uniti è stabilito per legge) senza ottenere in cambio imponenti tagli alla spesa pubblica. Venerdì sera i repubblicani hanno lasciato le trattative sbattendo la porta; se un accordo non verrà raggiunto entro il 2 di agosto, il Tesoro degli Stati Uniti potrebbe non disporre delle risorse per rimborsare i propri titoli in scadenza.

Nessuno crede veramente a un simile scenario, che sancirebbe la fine ingloriosa del dollaro quale valuta internazionale: anche solo l’abbassamento della valutazione attribuita ai titoli pubblici americani appartiene più a uno scenario di fantaeconomia che a un serio esercizio previsivo. Eppure nessuno se la sente di escluderlo di fronte alla scarsa lungimiranza dei parlamentari americani, la cui attenzione, come per quelli europei, è pressoché totalmente concentrata sui giochi politici interni e sul brevissimo periodo. Ormai, sembrano esser solo i cinesi e i brasiliani a pensare in grande, ad effettuare analisi economiche e valutarie globali di lungo periodo.

Anche ammettendo che i parlamentari americani non siano così folli e miopi da spingere il proprio Paese in un precipizio finanziario, la situazione degli Stati Uniti rimane debolissima per l’evidente fallimento della politica di stimolo monetario che fino a fine giugno per nove mesi ha «iniettato» nell’economia 2,5 miliardi di dollari al giorno. Con il solo risultato di far salire il prezzo delle materie prime, mentre la disoccupazione torna ad aumentare.

A questo punto non si può non convenire con il premio Nobel Paul Krugman che, sul New York Times di giovedì, ha ammonito contro il pericolo di una «Piccola Depressione» che assomiglia alla «coda» della «Grande Depressione» degli Anni Trenta: nel 1937, il passaggio prematuro da una politica di stimoli fiscali a una politica fiscale restrittiva fece deragliare gli accenni di ripresa. E la depressione continuò fino a quando la Seconda guerra mondiale diede alla domanda lo stimolo che le politiche di pace non erano state in grado di fornire. Sappiamo bene a quale terribile prezzo.

Fortunatamente siamo ben lontani dalle condizioni di allora. Sarebbe però opportuno che, sulle due rive dell’Atlantico, i banchieri centrali e i ministri economici quest’anno non andassero in vacanza. Per evitare di essere colti di sorpresa, nella quiete d’agosto, come successe nel 2007 e nel 2008, nel caso in cui una miope follia dovesse prevalere al Congresso americano o il «rattoppo» di Bruxelles non dovesse tenere.

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