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L’ ENI DI FRONTE AL MERCATO GLOBALE

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(WSI) – L’Ente Nazionale Idrocarburi ha rappresentato per decenni, anche dopo la morte, o meglio l’assassinio, di Enrico Mattei, una sorta di secondo Ministero degli Esteri che dettava nelle aree più strategiche del mondo la politica estera italiana, più e meglio della Farnesina, anzi sostituendosi molte volte ad essa.

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Un organismo, l’Eni, che riusciva a muoversi e ad agire nei paesi produttori di greggio e di gas al pari, allo stesso livello, e a volte anche meglio, delle Sette Sorelle anglo-olandesi ed americane e delle compagnie francesi. Tutto questo fu il frutto del nuovo particolare approccio di Enrico Mattei nei riguardi della realtà del Terzo Mondo, un approccio che il manager pubblico, già capo partigiano delle formazioni cattoliche, quindi uomo politico democristiano, volle introdurre per differenziare radicalmente lo “stile” italiano dalla voracità colonialista dei concorrenti esteri.

Probabilmente nell’impostazione tenuta da Mattei c’era anche il preciso calcolo, suggeritogli dal Vaticano, di garantire spazi di sopravvivenza alle comunità cristiane e cattoliche soprattutto nelle realtà a predominanza islamica, anche se c’è da dire che negli anni cinquanta non si era nemmeno lontanamente delineato l’integralismo islamico nelle forme da noi oggi conosciute e che nello stesso Egitto un gruppo come i Fratelli Musulmani aveva appena cominciato a farsi conoscere, peraltro a fatica, schiacciato come era dal socialismo nazionale e laico di Nasser.

La trovata di Mattei si manifestò nel puntare a creare società paritetiche tra l’Eni e i paesi produttori per la ricerca e lo sfruttamento dei giacimenti e molti furono i casi in cui l’Eni si addossò interamente le spese senza che esse dessero i frutti sperati. In tal modo l’Eni si fece una fama di società “amica” sulla quale tuttora, dal punto di vista dell’immagine, continua a vivere di rendita. Era in ogni caso la storia stessa dell’Eni che spingeva Mattei in questa direzione.

Sin dall’immediato dopoguerra erano state le compagnie petrolifere anglo-americane, in particolare la Exxon, a muoversi e fare pressioni sui propri terminali politici dentro i governi italiani affinché l’Agip rinunciasse alle ricerche di gas metano nella pianura padana, anzi perché la stessa Agip venisse smantellata. Fu merito quindi delle correnti “sociali” della Democrazia Cristiana se questo disegno fu scontrato e se venne fatto nascere l’Eni. In particolare, Fanfani e Gronchi, che comprendevano assai bene che un paese come l’Italia per avviare la ricostruzione economica necessitasse di una politica energetica nazionale e soprattutto svincolata dai condizionamenti esercitati dalle compagnie straniere che avrebbero potuto benissimo imporre all’Italia prezzi altissimi (l’Opec ancora non esisteva) e tarpare le ali ad una ripresa.

L’assassinio di Mattei, il cui aereo esplose in volo a Bascapè il 27 ottobre 1962, coincise con la crisi dei missili a Cuba e con il mondo arrivato sull’orlo di una guerra mondiale. Molti, per spiegare le ragioni della sua morte, oltre le note rivalità con le Sette Sorelle irritate per essere state più volte sconfitte e più volte spinte ai margini da una società concorrente certo più piccola di loro, ipotizzarono che si fosse trattato di un intervento di qualche servizio segreto militare Usa, preoccupato di potersi trovare di fronte, in un momento particolarmente caldo, ad una potenziale quinta colonna sovietica. Una balla gigantesca essendo stato Mattei uno dei creatorie dei finanziatori di Gladio.

Altri ancora parlarono invece di un intervento dei servizi segreti francesi irritati per il sostegno finanziario offerto apertamente dall’Eni al Fronte nazionale di liberazione algerino. Tutti, in ogni caso, a sostenere un qualche intervento “tecnico” e determinante della mafia siciliana visto che l’aereo era partito da Catania. Alla morte di Mattei alla guida dell’Eni venne richiamato il suo ex delfino Eugenio Cefis, anche lui democristiano ed anche lui ex capo partigiano che da tempo aveva lasciato l’Ente. Sotto la sua guida l’attivismo di Mattei fu messo alquanto nel dimenticatoio e si finì per trovare un gentlement agreement con le Sette Sorelle più di soddisfazione per loro che per l’Eni e per l’Italia.

Fino al periodo caratterizzato dalle inchieste giudiziarie di Mani Pulite, l’Eni si mosse tra alti e bassi, preda come era della voracità dei partiti politici, Dc e Psi in testa. Con il petrolio infatti è sempre stato facile arricchirsi. Il precipizio venne raggiunto verso la fine degli anni ottanta con il progetto Enimont, il tentativo cioè di riunire in un’unica società le attività chimiche di Eni e Montedison. Un progetto fallito sia per i calcoli sbagliati di Raul Gardini sia per l’eccesivo appetito dimostrato dai politici dell’epoca nel pretendere una fetta di torta, in altri termini una tangente sugli affari conclusi e su quelli in essere.

Fu Enimont la madre di tutte le inchieste sulla quale crollarono i cinque partiti di governo della Prima Repubblica, Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli, finiti nel vortice anche grazie a qualche manina, italiana e straniera, che incominciò a passare documenti compromettenti ai magistrati che improvvisamente, dopo anni di inerzia, presero a fare il proprio dovere. Un ciclone che, guarda caso, risparmiò la sinistra democristiana e il partito comunista che si vide presentato su un piatto d’argento lo scambio tra la legittimazione democratica da parte dell’Occidente, ossia dalla City e da Wall Street, e l’adesione ai principi del Libero Mercato che significava provvedere allo smantellamento dello Stato imprenditore e quindi del sistema delle Partecipazioni Statali.

Oggi gli eredi ed esponenti di quelle due esperienze siedono al governo e brigano per dare vita a quel Partito Democratico, tanto caro al professor Arturo Parisi del Mulino e ai circoli atlantici per gli effetti stabilizzatori che avrebbe sul nostro paese. Fu in questo spirito che il capitale dell’Eni il boccone pìù ambito, in nome delle liberalizzazioni venne messo sul mercato dai governi tecnocratici e dell’Ulivo seguiti a ruota da quello del centrodestra nel breve interludio berlusconiano nel 1994 e da tutti i successivi. Nella frenesia privatizzatrice che ebbe il suo punto di avvio dalla famosa e famigerata crociera del panfilo Britannia da Civitavecchia nel 1992, rientrarono pure alte cespiti come la Telecom, la cui privatizzazione meriterebbe un discorso a parte, ma è indubbio che è stato l’Eni il boccone più appetibile.

Le quattro offerte pubbliche di vendita fin qui effettuate da parte del Tesoro, l’ex azionista unico dell’Eni, hanno privilegiato spudoratamente i cosiddetti “investitori istituzionali” esteri e non già come sarebbe stato più logico gli investitori italiani, i piccoli risparmiatori, che avrebbero sottoscritto entusiasticamente tutte le azioni messe sul mercato. Oggi il capitale dell’Eni è controllato al 48% da investitori esteri (di fatto quindi è difficile considerarla ancora una società italiana) mentre il Tesoro conserva un pacchetto pari al 20,31% al quale si deve aggiungere la quota del 9,99% della Cassa Depositi e Prestiti. Tramite tale partecipazioni lo Stato italiano, in virtù della golden share, può nominare gli amministratori e bloccare operazioni contrarie all’interesse primario nazionale.

Anche il nuovo ministro dell’Economia, l’ex banchiere della BCE, Tommaso Padoa Schioppa, forse cosciente che a tutto c’è un limite, ha dichiarato (Corriere della Sera del 21 luglio scorso) che ridurre ancora la presenza dello Stato nell’Eni, ma anche nell’Enel, è impossibile, “a meno di accettare il rischio di scalate anche ostili”. Ma soprattutto ha aggiunto che “la stagione delle privatizzazioni può dirsi conclusa”. Affermazione che fatta da un tecnico con una impronta e una storia personale ben definite come la sua, non può che rallegrarci e rassicurarci.

L’Eni, dal canto suo, gode di ottima salute e i dati dell’esercizio 2005 e del relativo dividendo e quelli del primo semestre del 2006 lo dimostrano con tutta evidenza. Nonostante la spada di Damocle di questa rilevante presenza straniera nel suo capitale, la società è riuscita a raggiungere posizioni di indubbia forza tanto da essere il primo operatore di gas in Europa, e di avere tutte le intenzioni di crescere ancora, come ha sottolineato l’amministratore delegato Paolo Scaroni (Corriere della Sera del 23 luglio). E soprattutto di essere presente in tutti e quattro della filiera produttiva: trasporto internazionale, stoccaggio, distribuzione e vendita. Anche sul versante petrolifero l’Eni è presente nelle zone strategiche ed in quelle che destinate a diventarlo. Ad incominciare da quella vasta area che abbraccia il Mar Nero, il Mar Caspio e più in generale tutte le repubbliche asiatiche dell’ex Unione Sovietica.

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