Società

L’ECONOMIA USA E I DUBBI SULLA CRESCITA

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Diventa sempre più complicato il quadro di riferimento per i mercati. Da un lato ci si deve confrontare con
l’altalena di dati contrastanti in arrivo dall’economia – un giorno annunciatori di un imminente riavvio congiunturale
(almeno per quanto riguarda gli USA, in Europa è tutta un’altra storia), il giorno dopo già pronti a smentire una
simile prospettiva, confermando invece dubbi e incertezze – dall’altro con i timori di un disavanzo pubblico in forte
crescita, sempre negli USA, e di riflesso di pressioni dal lato dell’offerta di titoli dal parte del Tesoro, che per il terzo
trimestre del 2003 dovrebbe superare di nuovo i 100 mld di dollari, contro i 76 mld in precedenza preventivati.

Il
tutto in uno scenario “geopolitico” più stabile di quanto non apparisse nei mesi scorsi, ma comunque afflitto dai
riaffioranti rischi terrorismo e dalla cronica instabilità del Medio Oriente, i cui sviluppi potrebbero tornare a colpire
duramente il precario clima di fiducia globale. Un simile scenario spiega l’andamento sostanzialmente piatto dei
listini azionari in questi giorni, frutto di movimenti erratici che tendono ad elidersi tra una seduta e l’altra, e quello
sempre più pesante per l’obbligazionario, ancora in caduta, sebbene più nell’area del dollaro che non altrove (la
fonte del malessere, che si tratti dell’attesa di una robusta ripresa economica piuttosto che di un massiccio ritorno
del Tesoro alle aste del debito pubblico, come dicevamo è infatti soprattutto di matrice americana).

Può darsi che i
segnali giunti finora siano interlocutori, e che gli investitori, complice l’incertezza di questa fase, li abbiano
amplificati o interpretati in maniera molto umorale; ma una loro conferma nelle prossime settimane non deporrebbe
certo a favore di uno scenario improntato all’ottimismo: una ripresa economica più debole del previsto, assieme a
rendimenti obbligazionari meno contenuti, costo implicito di una politica fiscale fin troppo espansiva, non
rappresenterebbero certo una prospettiva allettante. Il punto chiave rimane comunque la crescita, poiché un
rimbalzo, sia pure temporaneo, dei rendimenti obbligazionari ha rappresentato sempre una costante di
ogni fase di ripresa; negli ultimi trent’anni, almeno negli USA, questi rimbalzi sono mediamente durati sei mesi
(tranne che nell’infausta esperienza del 1983, quanto si sfiorò un intero anno) e si sono collocati intorno ai 140
punti base per i Treasuries a scadenza decennale (anche qui con l’eccezione del 1983, quando si sfiorarono
addirittura i 400 punti).

Stavolta ci troviamo alle prese con una correzione che dai minimi di metà giugno, dunque in
meno di due mesi, ha già superato i 120 punti base: fin qui, dunque, tutto nella norma. Nelle fasi iniziali della
ripresa l’inflazione solitamente continua infatti a scendere, favorendo il ritorno dei compratori sulle obbligazioni a
lunga scadenza. Il vero problema sarebbe rappresentato dal naufragare delle attese di crescita, come già
accaduto nella seconda metà dello scorso anno; in tal caso anche la moderata correzione che solitamente
l’S&P 500 registra in concomitanza con quella altrettanto temporanea dell’obbligazionario (nell’ordine del 10%
circa sempre negli ultimi trent’anni, e stavolta siamo ancora sotto il 5%) potrebbe trasformarsi in una più profonda
ricaduta, che andrebbe ad avvitarsi con il rallentamento dell’economia.

Un primo allarme sulla ripresa è giunto ieri dall’indice sulla fiducia dei consumatori di luglio, precipitato
a sorpresa a quota 76,6 da una precedente lettura a quota 83,5, che si presumeva, almeno sulla base delle attese
di consenso, venisse per lo meno confermata nel mese in corso. A trainare la discesa è stata inoltre la
componente più rilevante, quella legata alle aspettative per i prossimi sei mesi, che ha perso ben dieci punti dalla
precedente quota di 96,4, a sua volta condizionata soprattutto da un maggior pessimismo circa le opportunità di
occupazione. Alla lunga, le perduranti difficoltà del mercato del lavoro si stanno quindi facendo sentire sul clima
generale di fiducia, peraltro una variabile che, sebbene seguita con grande attenzione dalla comunità finanziaria e
da molti osservatori, non è affatto così determinante nell’anticipare le reali decisioni di spesa delle famiglie.

Più che
la fiducia, sarà dunque l’esito dell’enorme cumulo di indicazioni in arrivo da qui ai prossimi giorni a mettere
eventualmente in discussione l’ottimismo imperante. Stasera la FED renderà noto il suo periodico Beige Book, il
rapporto sull’economia stavolta aggiornato a metà luglio; domani avremo invece le richieste di sussidio, attese alla
prova dopo l’incoraggiante calo a sorpresa registrato la scorsa settimana (a quota 386mila unità), la stima
preliminare di crescita del PIL (attesa attorno all’1,5%, dopo il già anemico +1,4% del 1° trimestre), l’indice dei
direttori degli acquisti dell’area di Chicago e le vendite di autoveicoli di giugno. Venerdì calendario ancora più fitto
con i nuovi dati di occupazione di luglio (prevista finalmente in riavvio, dopo una lunga serie negativa da febbraio in avanti, con una perdita cumulata di quasi 400mila posti), i redditi ed i consumi personali, l’indice nazionale dei
direttori degli acquisti (ora supply management) e il sentiment dei consumatori, stavolta rilevato dall’Università del
Michigan (quello di ieri, peraltro su un campione di gran lunga più ampio di interpellati, era invece curato dal
Conference Board: una sua smentita, per quanto altrettanto inutile per decifrare il reale andamento dei consumi,
migliorerebbe comunque di molto l’umore degli investitori).

Il rischio, come sempre in questi casi, è che ne esca un
quadro così confuso e suscettibile delle più diverse interpretazioni da non essere di alcun aiuto nel chiarirci lo
scenario macro per i prossimi mesi. In tal caso però – senza cioè una netta bocciatura delle ipotesi di significativa
ripresa nella seconda metà dell’anno, in linea con quanto auspicato dalla stessa FED – l’effetto liquidità e
l’andamento difficoltoso dell’obbligazionario avrebbero la meglio su ogni altro dubbio, favorendo l’ulteriore ascesa
– più per disperazione, dovuta alla mancanza di valide alternative, che non per reale convinzione – degli indici di
Borsa.

Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim