L’economia non riparte, ma i mercati azionari per il momento non sembrano preoccuparsene troppo. I
più recenti dati congiunturali, relativi ai mesi di marzo e aprile, non hanno infatti offerto segnali rassicuranti,
soprattutto dal lato dell’occupazione e degli investimenti; ma per loro evidentemente vale il beneficio del dubbio
che siano ancora le vicende “geopolitiche” a pesare, un’attenuante destinata comunque a venir meno con i dati di
maggio. In questo senso, tra un mese circa dovremo affrontare test molto più impegnativi in grado di farci
finalmente capire come si stanno muovendo gli scenari.
Eppure nell’immediato i mercati – stavolta non fa molta
differenza, che si tratti dell’azionario o dell’obbligazionario, in particolare del segmento corporate – stanno
continuando ugualmente a salire; più che un convinto ottimismo, a spingerli probabilmente basta il venir meno
dell’eccessivo premio per il rischio che nei mesi scorsi li aveva penalizzati, sui timori di un conflitto prolungato,
capace di infiammare l’intero Medio Oriente o di riavviare la minaccia terroristica, e carico di conseguenze per le
quotazioni del greggio: tutti eventi che poi per fortuna non si sono realizzati.
Al tempo stesso, e come anche qui
auspicato, continua a scendere il petrolio, a beneficio del potere d’acquisto reale delle famiglie e dei margini delle
imprese; e si indebolisce ancora il dollaro, un evento che, forse perchè si sta realizzando in modo composto e
graduale, non sembra per il momento generare grosse apprensioni sui mercati finanziari USA, anzi viene
giudicato un significativo elemento di rilancio per l’economia americana e le sue aziende più esposte a livello
globale. E, fatto ancor più curioso, non se ne vedono i riflessi di mercato nemmeno per i concorrenti esteri legati
alle valute più forti, in particolare quelli presenti nell’area euro, penalizzati dallo sfavorevole movimento del
cambio.
La verità è che stiamo forse attraversando una fase confusa, in cui mancano, oltre che visibilità e
chiarezza, anche idee; ma soprattutto condizionata da un’enorme massa di liquidità inoperosa alla ricerca di
rendimenti soddisfacenti. Meriteremmo mercati stagnanti, ma il venir meno dei timori che avevano depresso le
quotazioni nei mesi precedenti ci fa ugualmente assistere ad un costante e tutto sommato gradito recupero.
Lo stesso comunicato della FED al termine dell’incontro sui tassi di ieri sera sembrerebbe intonato a
questo clima. I recenti segnali su produzione e occupazione sono apparsi deludenti – si dice – ma il venir meno
delle tensioni geopolitiche ha favorito la discesa dei prezzi del greggio, mentre sono risaliti sia la fiducia dei
consumatori, sia i mercati azionari e obbligazionari. Tutto ciò “dovrebbe favorire con il tempo un migliore clima
economico”. Tempi e intensità di questo miglioramento appaiono però incerti, anche se nei prossimi trimestri i
rischi di sorprese positive o negative sembrerebbero bilanciarsi; non così però per i rischi di inflazione,
decisamente più contenuti, il che ha spinto la FED ad adottare nuovamente un orientamento espansivo di politica
monetaria.
Se nel precedente incontro di metà marzo l’idea era che l’incertezza geopolitica non consentisse di
prendere una chiara posizione, stavolta l’impressione è che Greenspan, pur preferendo attendere i dati
congiunturali di maggio prima di decidere, tema sostanzialmente che la debolezza possa protrarsi ancora e che
sia quindi necessario procedere a fine giugno con un altro taglio. Per alcuni sarà aggressivo, mezzo punto secco,
in modo da dare un’ulteriore sferzata alle aspettative degli operatori. A giustificarlo, già nei giorni scorsi, sono stati
segnali per nulla incoraggianti, soprattutto sul fronte critico del mercato del lavoro: in aprile sono andati perduti
altri 48mila posti di lavoro, ben 80mila nel settore privato, con una punta di 95 mila in quello manifatturiero. Da
inizio anno, i nuovi occupati sono scesi di oltre mezzo milione di unità, ed una nuova caduta, sia pur più lieve, è
già pronosticata anche per maggio.
Se i sondaggi condotti sulle famiglie sono più confortanti, poichè mostrano già
una ripresa di assunzioni, le richieste di sussidio settimanali sono ormai attestate da un mese oltre la media delle
440mila unità, mentre i licenziamenti di aprile sono nuovamente balzati oltre quota 146mila, in netta risalita
rispetto agli 85mila circa di marzo. Preoccupante è stata anche la discesa dell’indice dei direttori degli acquisti
registrata in aprile, ben sotto le attese e soprattutto lo spartiacque di quota 50 (siamo finiti a 45,4), sia pur
bilanciata dal recupero dello stesso indice rilevato nel settore dei servizi (da 47,9 a 50,7).
A Wall Street si è però
deciso di attendere i segnali di maggio prima di trarre conclusioni affrettate, dando più peso al confortante
rimbalzo della fiducia delle famiglie e alle sorprese positive giunte sul fronte degli utili aziendali, che ora stanno
viaggiando, per le realtà appartenenti all’indice S&P 500, su ritmi superiori al 13% su base annua.
Il
deprezzamento del dollaro sta indubbiamente iniziando a far sentire i suoi benefici, anche sui fatturati, ora tornati
a crescere di quasi il 10% in termini nominali, e tra un po’ giungeranno anche i vantaggi dei minori costi
dell’energia; non bisogna però dimenticare che una risalita degli utili 2003 intorno al 15% annuo era già da lungo
tempo anticipata, e questo spiega perchè le quotazioni azionarie non siano così depresse come in altre passate
fasi critiche di mercato.
Insomma, la nostra impressione è che pur in assenza di uno shock traumatico come quello dell’11
settembre, ma pur sempre avendo dovuto confrontarsi con un evento bellico carico di incertezze e rischi
collaterali, la situazione attuale ricordi per certi versi quella di un anno fa; come allora il recupero delle
Borse deve fare i conti con i dubbi sulla ripresa economica, mentre anche stavolta, forse più che mai, si ripropone
il problema di quale ruolo possa giocare un’enorme massa di liquidità che, pur in caccia disperata di rendimenti
soddisfacenti, non sembra ancora disposta a rientrare massicciamente in Borsa. Allora fu soprattutto la
“geopolitica” a far deragliare un circolo virtuoso di ripresa – non a caso, proprio in primavera l’Iraq entrò
concretamente nel mirino dell’Amministrazione Bush e il greggio concluse la sua discesa “virtuosa” – stavolta
pesano invece le incognite della Sars e i timori che gli interventi di politica monetaria, se necessari, possano però
risultare inefficaci.
Stimolati sarebbero solo i consumi, a spese però di un ancor più elevato indebitamento netto
delle famiglie e di un persistente squilibrio dei conti con l’estero. Forse stavolta i mercati si muoveranno
diversamente rispetto all’anno scorso, ma memori della non felice esperienza di allora preferiremmo attendere
ulteriori verifiche congiunturali prima di avventurarci in facili ottimismi. Quanto all’Europa, sicuramente la forza del
cambio si rifletterà, in negativo, sulla crescita degli utili; ma è ancora da capire se la Banca Centrale deciderà di
contrastare questo effetto sfavorevole con una politica monetaria più espansiva.
La riunione di domani è forse
prematura per chiarire questo dubbio: dubitiamo infatti che vi sia già un consenso per un taglio, probabilmente
destinato a concretizzarsi solo in giugno. Il rischio è quello di tassi euro ancora a lungo fermi e di un cambio più
forte; nel qual caso sarà molto difficile che i listini europei, pur più volatili, possano battere Wall Street.
*Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim.