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(WSI) – A poche settimane dal suo insediamento, si può dire che il governo di Romano Prodi sia entrato in fase di normalità. Ciò significa che si è trovato faccia a faccia al «normale» problema del deficit e del debito pubblico italiano e che si è già tornati a parlare di «buchi», di «tagli» e di «manovre». Prodi ha la fortuna di ereditare dal suo predecessore un clima congiunturale un po’ meno teso, grazie al barlume di ripresa che sta riversando nelle casse pubbliche più denaro di quanto ragionevolmente molti si aspettavano, ma la sostanza della questione non può dirsi mutata.
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Con la sola manovra delle entrate, ossia senza toccare la spesa sociale e senza ridurre il costo complessivo del lavoro nel settore pubblico, la traiettoria negativa dei conti pubblici si può correggere solo molto (troppo) lentamente; se si prova a incidere su queste voci, si rischia un viscerale rigetto sociale e politico. In entrambi i casi sembra difficile far perdere all’Italia il poco invidiabile titolo di «ultima della classe» dell’Unione Europea.
Occorre quindi avvalersi di metodi non convenzionali, senza illudersi che costituiscano la bacchetta magica che risolvere tutti i problemi; il centrodestra provò, con scarso successo, ad agire con le cartolarizzazioni e con una serie di strumenti contabili. Il nuovo governo potrebbe però disporre di un’«arma segreta», in grado, se usata correttamente, di modificare in maniera abbastanza sensibile le prospettive dei bilanci pubblici: quest’arma segreta è antichissima, ha un accattivante sfavillio che continua a eccitare passioni ed emozioni. Si tratta, naturalmente, dell’oro.
Circa 2450 tonnellate del metallo giallo si trovano nei forzieri della Banca d’Italia, il che pone il Paese al quarto posto quanto a consistenza delle riserve ufficiali, dopo Stati Uniti, Francia e Germania, teoricamente pari – all’attuale prezzo di mercato, prossimo a 650 dollari l’oncia – a oltre 40 miliardi di euro, l’equivalente di due o tre pesanti manovre fiscali. E’ opportuno sottolineare il carattere «teorico» perché, naturalmente, se l’Italia si mettesse a vendere tutto quest’oro, il prezzo precipiterebbe subito.
L’Italia, inoltre, non ha le mani libere in questa materia. Con uno speciale accordo, il Gold Agreement, i Paesi dell’euro, la Bce e la Svizzera si sono impegnati a vendere oro solo in maniera coordinata per un quantitativo massimo complessivo di 500 tonnellate l’anno.
Quest’ammontare è ritenuto compatibile, se posto in vendita con accortezza, con la necessità di assicurare un andamento regolare dei mercati ed evitare una forte caduta del prezzo del metallo. Entro questo totale, però, un grande detentore d’oro, come l’Italia, potrebbe ragionevolmente rivendicare il diritto a vendere 100-150 tonnellate l’anno. Ai prezzi attuali, 100 tonnellate equivalgono a circa 2-2,5 miliardi di euro; la disponibilità di una simile voce d’entrata sull’arco di più anni avrebbe effetti del medesimo ordine di grandezza dell’aumento di una delle grandi imposte e, se usata in funzione aggiuntiva e non sostitutiva, potrebbe rappresentare la spinta che permette di riavviare un motore inceppato.
Va ricordato che questo metallo è ufficialmente valutato poche decine di dollari l’oncia ed è un gran peccato che stia fermo nei forzieri quando la differenza tra il prezzo attuale e il prezzo di carico, nel caso di vendite limitate e continuative, potrebbe essere calcolata tra le entrate correnti. Alcuni Paesi, come Francia, Austria, Germania e Svizzera hanno effettuato o annunciato, lungo queste linee, vendite importanti, per un totale di circa 1000 tonnellate, scaglionate tra il 2005 e il 2009. La Gran Bretagna si è già disfatta di gran parte del metallo, per di più a prezzi assai poco vantaggiosi. Lo scopo della vendita è, in linea generale, quello di recare sollievo ai bilanci pubblici, ma devono specificamente essere indicati i programmi di spesa da finanziare con questi introiti. In genere, devono essere particolarmente meritori e di lungo periodo (infrastrutture, ricerca, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta), il che darebbe qualche flessibilità a voci sistematicamente tagliate.
L’uso delle riserve per stimolare la crescita economica dovrebbe, inoltre, rappresentare un’idea bipartisan: fu inizialmente auspicato da Romano Prodi, al tempo del suo primo governo, quale ottima ricetta per il rilancio dell’intera economia europea e nel 2004 l’allora ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, aveva avanzato la stessa idea in polemica con il governatore della Banca d’Italia, a quel tempo Antonio Fazio, il cui consenso è indispensabile perché le vendite si possano realizzare.
Qui si giunge al punto dolente: le chiavi dei forzieri non sono in mano ai governi bensì alle banche centrali e queste istituzioni, là dove sono dotate di poteri autonomi, sono piuttosto restie a disfarsi del metallo prezioso, tradizionalmente ritenuto la base ultima – anche se oggi in ogni caso molto remota e del tutto teorica – del sistema dei pagamenti. In vari Paesi europei, e soprattutto in Germania, è in atto un deciso contrasto tra il governo e il governatore. E’ peraltro ragionevole supporre che il cambiamento al vertice possa condurre la Banca d’Italia a una posizione più flessibile, anche tenuto conto del fatto che non si tratta di vendite di grandissima entità. E della considerazione che, se non si trovano strumenti nuovi, rischiamo di rimanere condannati al deficit e alla quasi-stagnazione.
Questi gialli e pregiati lingotti potrebbero forse fare la differenza tra stagnazione e crescita in un contesto di riforme, in cui affrontare i problemi strutturali dell’eccesso di risorse che va ad alcuni settori sussidiati, del costo del lavoro, privato e pubblico, delle pensioni. Potrebbero invece diventare una maledizione qualora venissero usati come alibi per non fare le riforme e lasciare tutto com’è: avremmo allora dissipato anche l’ultima risorsa disponibile e il calice da bere, dilazionato di pochi anni, risulterebbe ancora più amaro.
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