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(WSI) – E’ lo sconvolgimento imposto dagli esiti della Prima guerra mondiale alla mappa politica del pianeta a far nascere il sospetto che dietro le strategie delle grandi potenze ora entri sempre più decisamente il petrolio, dopo che il crollo dell’Impero ottomano ha rivelato con quanto impegno si sia proiettato ad assumere il controllo dei pozzi del Medio Oriente il Grande di quel tempo, grande per potenza industriale e potenza militare, che era la Gran Bretagna.
Negli Anni ‘20 l’Iraq sarà «la folle invenzione» di Churchill, che unifica tre realtà totalmente diverse – Mosul, Bassora, e Baghdad – pur d’impossessarsi dei giacimenti della Mesopotamia; la risposta susseguente sarà, 20 anni più tardi, quella del nuovo Grande del mondo, gli Usa, che nella Seconda guerra mondiale sono andati sostituendosi a Londra come potenza dominante, e nel febbraio del ’45 stipulano un patto di ferro con la dinastia dei Saud, guadagnando il controllo degli immensi bacini di idrocarburi che si stendono sotto i deserti dell’Arabia Saudita.
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Nella storia del mondo contemporaneo, potenza e petrolio sono, dunque, due identità strettamente interdipendenti. L’idea che gli Stati Uniti di Bush abbiano avuto ben chiaro l’utilizzo del potenziale petrolifero dell’Iraq quale possibile sostituto di un alleato sempre più inaffidabile, come era andata diventando la monarchia di Riyad, è un’idea che con una credibilità diffusa tende a spiegare buona parte dell’attacco (anglo)americano contro Saddam Hussein.
Gli Stati Uniti, infatti, che con Roosevelt di ritorno da Yalta firmavano a bordo di un incrociatore americano ancorato nel Golfo il patto con i Saud, erano ancora – in quel 1945 – esportatori di petrolio, i primi al mondo; però avevano ben chiaro come fosse il controllo delle risorse energetiche il primo elemento di ogni strategia vincente (la Germania di Hitler ne aveva condizionato le proiezioni militari della Wermacht nel mondo), e con quella firma si premunivano di fronte al futuro. Ora quel futuro è arrivato, gli Usa sono diventati importatori anch’essi, e dipendono dai flussi petroliferi che le rotte marittime internazionali aprono verso i porti e le raffinerie americane.
Di questi flussi, il Golfo è certamente un elemento essenziale con quel suo 65% di riserve petrolifere mondiali. Il controllo del suo bacino garantisce flussi costanti e sicuri, ma nel Golfo c’è anche l’Iran, che stende i propri giacimenti sulla costa opposta a quella degli sceiccati arabi; e se gli sceiccati sono grandi fornitori degli Usa e dell’Occidente europeo, l’Iran che spedisce il 45% della propria produzione verso l’Europa non manda a Washington un solo barile (ci fu un tempo, naturalmente, in cui l’America era ottimo cliente della Persia, ma lo Shah Pahlavi cadde sotto la spinta di Khomeini e da quel giorno i rubinetti si chiusero). Non solo l’Iran non spedisce agli Usa un solo barile, ma nei fatti pratica a tutto campo una politica decisamente antiamericana, accusando Washington di «imperialismo» e «neocolonialismo».
Sono le stesse accuse che muove all’America il Venezuela di Chávez, che pure spedisce verso le raffinerie degli Stati Uniti più del 40% delle proprie esportazioni e, coprendo con questi flussi il 15% delle importazioni americane totali di idrocarburi, è certamente un fornitore capace di impensierire i governi Usa nelle loro politiche di controllo delle riserve strategiche.
Washington sta provvedendo a un ulteriore diversificazione delle forniture, ma l’alleanza che Chávez e Ahmadinejad rafforzano a ogni passare di stagione – hanno già firmato una trentina di protocolli d’intesa, pur tanto distanti tra loro per dimensione geografica, orizzonti culturali, tradizioni politiche – crea certamente problematiche nuove agli scenaristi di strategie della Casa Bianca (anche perché l’Europa, alleata «naturale» degli Usa, è comunque molto sensibile a quanto accade nel Golfo, da dove importa larga parte delle risorse energetiche per i bisogni della propria economia: quel 45% di esportazioni petrolifere iraniane verso Italia, Germania, Francia eccetera è un potenziale di pressione politica che non va sottovalutata).
In un mondo nel quale le strategie americane debbono misurarsi con la concorrenza che è in ogni orizzonte del mondo gli crea la bulimia cinese di petrolio, e mentre la Russia di Putin manifesta il recupero delle proprie ambizioni di grande potenza attraverso il controllo dei suoi immensi giacimenti di petrolio e di gas, il panorama nel quale si articolavano le alleanze e le manifestazioni di forza (il soft power, ma anche l’hard power, secondo Joseph Nye) degli Stati Uniti ha mutato profondamente i terreni tradizionali di intervento. E persino una così singolare alleanza come quella tra Ahmadinejad e Chávez si guadagna ora attenzione e, certamente in Usa, preoccupazione.
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