(WSI) – Se l’Europa, preoccupata per l’indebolimento del dollaro, accusa gli Stati Uniti per il deficit che ha accumulato sul fronte della spesa pubblica, commette un errore di prospettiva: «Il deficit diventerà un problema grave nei prossimi due anni, ma le sue dimensioni attuali sono ancora sostenibili, perché dietro c’è un’economia in espansione e una capacità produttiva inutilizzata» spiega Robert Reich, economista e ministro del Lavoro del governo Clinton, un democratico che sul rigore delle politiche di bilancio ha idee meno severe dei suoi compagni di partito.
Mentre a Washington i membri del gabinetto Bush cadono uno dopo l’altro, il ministro del Tesoro John Snow è in missione in Europa; negli incontri – che culmineranno nel G20 di fine settimana, il vertice che riunisce «grandi» del G7, Paesi emergenti e nuove potenze industriali asiatiche – parla soprattutto del «deficit di crescita» del Vecchio continente e chiede ai partner di impegnarsi ad espandere più rapidamente le rispettive economie. Dall’altra parte trova interlocutori preoccupati – e anche irritati – per il repentino indebolimento del dollaro che l’Amministrazione Usa non sembra interessata ad arginare, a parte qualche dichiarazione di facciata.
Lo spazio per un’intesa è esiguo: Washington sembra interessata solo a far sì che lo slittamento del dollaro avvenga in modo ordinato, senza scossoni, ma molti temono una crisi repentina. L’Europa non vuole crisi ma nemmeno ulteriori cadute che rafforzerebbero troppo l’euro, facendole perdere competitività anche rispetto ai Paesi asiatici ancorati alla valuta Usa. Reich non vede le premesse per una riforma del sistema dei cambi, né ritiene che l’Europa potrebbe mettere sul piatto la rinuncia a far crescere l’euro come nuova valuta mondiale di riserva: «Farebbe comodo agli Stati Uniti, ma non è nei vostri interessi: avere altri Paesi che usano la tua moneta come valuta di riserva è come ottenere un prestito senza interessi dal resto del mondo».
Ma i margini per riequilibrare la situazione, spiega il ministro che visse con Clinton la stagione esaltante della «new economy», col bilancio federale in surplus e la creazione di 22 milioni di posti di lavoro, oggi ci sarebbero ancora: gli europei potrebbero sostenere la loro crescita con una politica più espansiva, rischiando anche qualcosa di più dal lato dei disavanzi di bilancio, mentre, nelle sue dimensioni attuali, il deficit federale Usa sarebbe ancora gestibile: «Il disavanzo non è un problema insolubile quando, come accade ora, l’economia ha ancora una rilevante capacità produttiva inutilizzata. Il punto è che questa spesa aggiuntiva non coperta da entrate si somma a una domanda interna già molto sostenuta e spinge i Paese verso un utilizzo pieno delle sue capacità: uomini, fabbriche, uffici. Questo significa che entro due anni il deficit diventerà un problema molto più grave perché genererà inflazione».
Negli Usa un allarme su questo fronte è peraltro già scattato due giorni fa, con i prezzi alla produzione che in ottobre hanno registrato l’incremento mensile più alto degli ultimi 15 anni: molto più di quanto temuto per l’impatto del caro-petrolio. Per Reich la vera questione non è quanto deficit ma quale deficit: «Un disavanzo che riflettesse forti investimenti nella scuola, nelle infrastrutture, nella ricerca, sarebbe meno dannoso perché servirebbe a costruire un’economia più forte, ad espandere ulteriormente la capacità produttiva». Ma oggi l’America spende «molto meno di 25 anni fa, in rapporto Pil, per scuola, formazione professionale, ponti, strade, aeroporti». Perfino nella ricerca (dove l’America rimane comunque l’indiscusso leader mondiale) l’investimento pubblico è più che dimezzato in termini reali.
Insomma, cosa devono aspettarsi gli americani visto che, deficit pubblico a parte, il disavanzo dei conto con l’estero ha ormai travolto tutti i record? Dovrà calare la domanda interna? Le famiglie dovranno «tirare la cinghia», nonostante le promesse di Bush? Reich, autore di «Perché i liberal vinceranno ancora», un atto di fede e una riflessione sulla crisi del partito democratico tradotto in un libro ora pubblicato anche in Italia, accusa Bush di aver riconquistato la Casa Bianca con una «campagna di paura e con l’aiuto della destra radicale che ha demonizzato i liberal, gli europei e chiunque manifestava idee diverse» e avverte che lo schiacciamento dei ceti medi – fenomeno iniziato alla fine degli anni ’70 ma che di recente ha subito un’accelerazione in un’America sempre più polarizzata – è un trend pericoloso per la democrazia.
Una situazione destinata a peggiorare: «Il deficit commerciale in sé non sarebbe un problema. Il vero problema è che gli americani stanno vivendo al di sopra dei loro mezzi, la spesa va molto oltre la capacità produttiva del Paese. Lo si può affrontare solo in due modi: espandendo quella capacità produttiva o tagliando la spesa. Credo che saremo costretti a fare tutte e due le cose, ma non so sinceramente quando la politica prenderà atto della realtà.
E’ difficile per un Paese mantenere un esercito in guerra, combattere il terrorismo, affrontare emergenze finanziarie come quella dei futuri disavanzi delle pensioni e di Medicare, la sanità per gli anziani, finanziando al tempo stesso gli investimenti necessari per garantire la crescita del Paese. Questi investimenti sono vitali ma danno frutti dopo molto tempo mentre la politica ha un orizzonte politico che al massimo arriva a quattro anni».
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