Capita nei teatri che anche certi lavori di buona fattura deludano gli spettatori. Accade quando le repliche sono troppe e gli attori ripetono le battute in modo distratto, non vedono l’ora di arrivare al terzo atto. Si sente che recitano la parte e in sala affiora un senso di fastidio.
L’alleanza a quattro che governa l’Italia è oggi nella stessa condizione di una compagnia teatrale in cui tutti sono con la testa altrove. Del resto, è un’alleanza non più riconosciuta come tale da tre componenti su quattro. A eccezione del partito del presidente del Consiglio, i vari soci sono avviati su altri sentieri.
Restano per il momento nella Casa (delle Libertà) perché non hanno alternative immediate, ma è evidente che non credono più alle ragioni politiche della convivenza.
Fini e Follini ragionano sui tempi e i modi del «dopo Berlusconi», ma non sanno quando si realizzerà un tale evento. Per adesso il centrodestra in Italia esiste ancora nel segno di Silvio Berlusconi: con tutti i limiti e gli errori del politico (ultimo, drammatico, quello su Putin e la Cecenia), con le intuizioni e le astuzie dell’uomo d’affari navigato. Non c’è alle viste una diversa leadership nel centrodestra; ci sono invece ancora tanti voti popolari di cui il premier è il depositario e nessuno dei suoi partner è in grado di competere con lui su questo terreno.
Ne deriva che per An e i centristi il «dopo Berlusconi» vagheggiato è, da un lato, una necessità, ma dall’altro un obiettivo remoto. Nel frattempo si è lacerato il tessuto connettivo della maggioranza, come dimostra lo sforzo di cancellare, o ridurre ai minimi termini, l’influenza della Lega: con i giochi parlamentari che ne conseguono. A sua volta Umberto Bossi non fa mistero di pensare ormai solo alla sopravvivenza del suo partito. E di preoccuparsene in una logica che da tempo ha cessato di essere quella dell’alleanza a quattro.
Così ognuno è costretto nella sua parte, nessuno può sottrarsi alle battute del copione. Ma si sente la stanchezza. Non serve molta fantasia per intuire che Bossi, nell’assemblea di Milano, scaglierà nuovi anatemi contro il presidente della Camera e ripeterà che la pazienza leghista è esaurita. Nella sostanza, però, il ministro della Giustizia rimane al suo posto, nonostante il colpo subìto dai franchi tiratori; a conferma del fatto che i comportamenti pratici di Bossi sono molto più cauti dei proclami pubblici.
Allo stesso modo, è superfluo ricorrere a un mago per immaginare quali saranno le reazioni dell’Udc e di Fini, uniti dalla volontà di rappresentarsi a ogni costo dialoganti e di buon senso. In ogni caso hanno già chiarito che non ci saranno voti di fiducia in tema di riforme istituzionali.
Nessuno, allo stato, ha la volontà o la forza per mettere sul serio le carte in tavola. Nessuno, peraltro, ha davvero voglia di abbandonare il campo. L’alibi del semestre europeo in corso è utile a rinviare scelte che non sono mature.
In questo clima il governo Berlusconi è diventato il secondo per durata nell’intera storia repubblicana. Tirando in lungo, non è escluso che tra qualche mese possa battere il record del primo governo Craxi (1058 giorni). Può essere una soddisfazione. Resta da capire se il presidente del Consiglio ha interesse a scivolare lungo questa china. La frase che sintetizza l’opinione che Berlusconi ha dei suoi alleati («senza di me non vanno da nessuna parte») mantiene forse la sua attualità. Ma implica la rinuncia a esercitare una guida politica e non garantisce in alcun modo che un’alleanza frustrata vada in Parlamento a votare le riforme.
Un vero, tempestivo chiarimento all’interno della maggioranza, ridistribuendo il potere in modo reale e non fittizio, è nell’interesse del premier. E’ o dovrebbe essere la sua priorità. Quali che siano i rischi dell’operazione.
*Stefano Folli e’ il direttore del Corriere della Sera
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