(WSI) – Di fronte all’evidente pesantezza del macigno del nostro Debito Pubblico e della crisi, che malgrado tutte le belle parole, continua a mordere sia sul fronte economico, sia – soprattutto – su quello sociale, assistiamo ad un vero coro unanime, da destra a manca, da tutti i grandi economisti e commentatori economici, dagli organismi sindacali e padronali: senza la crescita non si va da nessuna parte.
A parte i pochi fan delle teorie di Serge Latouche sulla “decrescita serena” come vera alternativa per il nostro futuro, c’è una vera unanimità su di una questione che, a ben vedere, è totalmente ovvia. Questo ritornello della necessità della crescita, senza specificarne i contenuti e soprattutto le modalità per ottenerla, appare decisamente insopportabile.
Anche stimati e apprezzati economisti come Tito Boeri o Francesco Giavazzi non escono da questi generici richiami. Che, non potendo essere messi in discussione da nessuno (a parte Latouche) diventano una sterile ripetizione di frasi fatte.
Pochi infatti ricordano che il nostro declino economico non è di oggi, ma è – purtroppo – di lungo periodo. Negli ultimi 15 anni (dal 1996 al 2010) l’ Italia cresce con una media dello 0.9 per cento all’anno contro il doppio (1.8 per cento) della media dell’Europa a 27. Negli ultimi nove anni (dal 2002 al 2010) cresciamo totalmente di appena lo 0.9 per cento. Cioè da nove anni siamo in piena stagnazione. Anche dal punto sociale il confronto è inquietante: il Prodotto pro capite (a parità di potere di acquisto) in 14 anni decresce del 6 per cento nell’ area dell’euro e del 16 per cento in Italia.
Quindi le ragioni sono strutturali e non congiunturali.
E i diversi governi (di centro-destra oppure di centro-sinistra) non sono riusciti ad incidere su questo trend. Perché tutti hanno lavorato sul breve periodo cercando di “rappezzare” con misure congiunturali una situazione disastrata che meritava ben altre terapie.
Sullo sfondo l’ombra minacciosa di un debito pubblico sempre crescente. Negli ultimi 15 anni aumenta di circa 700 miliardi di euro, mostrando una pericolosa accelerazione negli ultimi due anni con incrementi di quasi 100 miliardi di euro all’anno. Con l’esplosione della bolla dei cosiddetti “debiti sovrani” e con le inevitabili contromisure prese dagli organismi internazionali per fronteggiare questa situazione sempre più esplosiva, lo stato della finanza pubblica italiana diventa necessariamente oggetto di osservazione speciale.
Di qui la crescente difficoltà – se non impossibilità – di intervenire con politiche di “deficit spending” (anche con tutte le molte controindicazioni e i loro limiti congiunturali) almeno per dare dell’ossigeno ad un’economia in grave affanno. Precluso questo tipo di interventismo statalista – di fatto auspicato da una parte della sinistra italiana – e senza poter ricorrere alla leva fiscale a causa dell’insopportabile peso della pressione fiscale (sui lavoratori a reddito fisso e pensionati e sugli operatori onesti) le vie di uscita diventano sempre più strette e difficili.
Di qui la ripetizione del mantra della crescita senza dire come perseguirla. Se non si analizzano infatti le cause profonde della malattia non si potranno mai suggerire delle terapie adeguate. Perché soffriamo da almeno venti anni di un declino inarrestabile? Se non analizziamo lo stato pietoso della nostra ricerca a causa di un sistema baronale, clientelare e nepotistico non possiamo capire che qui, come nei deficit formativi dei nostri giovani, risiede una delle cause profonde dei nostri mali.
Secondo una ricerca del Times Higher Educ. 2010/2011 tra le prime 200 Università del mondo
non ce n’è nessuna italiana. 25 paesi nei cinque continenti sono presenti, l’Italia è assente. Alla qualità scadente si aggiunge la quantità insufficiente: in dieci anni la spesa della R.&S. (ricerca e sviluppo) sul PIL in Italia è stata dell’ 1.1 per cento contro il doppio della Francia (2.2 per cento) il 2.3 per cento della Danimarca, il 2.4 per cento della Germania, il 3.1 per cento del Giappone, il 2.6 degli Usa e il 2.5 per cento della Corea. Solo in dieci anni la nostra Ricerca e Sviluppo ha usufruito di meno di 120/130 miliardi di euro rispetto ai nostri principali partner mondiali.
Le due questioni: qualità e quantità, sommate danno il segno della gravità della nostra crisi. Conseguentemente siamo abbastanza arretrati quanto ad innovazione (al 19° posto nell’ Europa a 27), dopo anche Slovenia, Repubblica Ceca, Portogallo, Spagna e Grecia. Ovviamente siamo poco competitivi: 48° posto nel mondo con però delle punte inquietanti sul funzionamento delle Istituzioni ( 92° posto) e sul mercato del lavoro (118 posto nel mondo).
Un paese considerato tra quelli moderatamente liberi (74° posto nel mondo quanto a libertà economica) non può certamente essere attrattivo per gli investimenti stranieri ( in 15 anni abbiamo ricevuto appena 1/3 dei flussi della Francia e 1/7 di quelli della Gran Bretagna). Così come non può essere molto attraente per fare affari. Infatti nel Doing Business 2010/2011 della World Bank, l’Italia si colloca in uno sconfortante 80° posto nel mondo, con punte drammatiche del 128° posto per la pressione fiscale e del 157° posto sul tema della giustizia.
Quindi ricerca applicata e ricerca & sviluppo, scuola, università, libertà economica, istituzioni funzionanti, efficienza del mercato del lavoro e soprattutto giustizia sono le questioni da aggredire. Senza una vera rivoluzione liberale non si potrà mai aprire un percorso di sviluppo equilibrato ed equo. Ma per affrontare queste radicali riforme di struttura il nemico da battere è il sistema partitocratico, clientelare e corporativo che sempre più massicciamente pervade tutta l’Italia da un sessantennio. Viste le connivenze delle oligarchie partitocratiche, con quelle sindacali e padronali, con le mille lobby che dominano il paese, con il sistema diffuso di illegalità, la battaglia appare estremamente ardua. Ma se non analizziamo – come hanno fatto dai Radicali con la “Peste italiana” – i mali oscuri e profondi della malattia , e se non riusciamo a “socializzare” questi temi e farne oggetto dell’agenda politica italiana, la via delle riforme di struttura e, quindi, dall’uscita da questa lunga, drammatica fase di declino italiano, non potrà che restare impraticabile.
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