Roma – Riportare (o introdurre?) il principio della meritocrazia in Italia, ridurre drasticamente il numero di impiegati che ricoprono cariche in enti pubblici o in società a essi collegati, consentire al Sud di crescere previa-dichiarazione del default, riformare lo stesso sistema scolastico, per farlo stare più al passo con i tempi. Soprattutto, fare in modo che il governo venga guidato da PolitTecnici: politici preparati, che abbiano anche una natura tecnica, ossia che siano veri e propri esperti nelle materie che gestiscono. Questo e altro scrive nel suo libro appena pubblicato “Avanti Italia” Francis Morandi managing partner di Te.Ma Consultants e Te.Ma Warren Europe, che Wall Street Italia ha intervistato.
Il suo messaggio, Morandi lo condensa nella seguente dichiarazione. E’ necessario “favorire le competenze e il merito nella classe dirigente e politica italiana, ridurre i tartufismi della politica e l’attuale inefficienza dei milioni di dipendenti di uno Stato che finora non ha saputo raccogliere le imposte, attivare reali riforme e cantieri o combattere adeguatamente le numerose mafie e caste presenti.
WSI – Dr. Morandi, lei ha coniato un nuovo “termine”, quello dei PolitTecnici. Un termine che racchiude anche importanti concetti che lei ritiene necessari per risollevare la credibilità e la fiducia nei confronti dell’Italia. Chi sono esattamente i PolitTecnici?
MORANDI – PolitTecnici è un neologismo che nasce dalla necessità di superare l’insulsa diatriba (creata da certi politicanti) tra la figura dei politici e quella dei tecnici. In sostanza, l’Italia oggi ha bisogno che ogni politico sia anche un esperto, competente cioè nelle materia di cui si occupa e che amministra. Per esempio, un ministro dell’economia deve disporre di solide esperienze e conoscenze economiche, professionali e quantitative oppure un ministro delle sanità deve essere molto pratico in materia di Sanità. Concetti ovvi, ma non troppo per i nostri partiti. Basta con gli avvocatucoli tuttofare, con i portaborse o con le veline, in parlamento e nei comuni.
I PolitTecnici dovrebbero, a mio avviso, pubblicare obbligatoriamente i propri curricula “certificati”, per rendere trasparente il loro reale bagaglio di conoscenze ed esperienze. Occorre cioè candidare e selezionare bene, nell’interesse dell’intero Paese, dirigenti e politici capaci. Uomini (e donne) giusti nei posti giusti, che possano operare sulla base di ordinamenti (monocameralismo?) e procedure razionali. Non cooptazioni clientelari ma un controllo sociale, in attesa della prossima web democracy.
WSI – Una maggiore trasparenza dunque, in modo che i cittadini sappiano da chi sono governati…
M – Sì, una maggiore trasparenza, che dovrebbe però applicarsi anche in un altro contesto, ovvero quello dei conti e della spesa pubblica. Basta fare il paragone con gli Usa, la Germania oppure anche solo con la Svizzera o la Finlandia, dove le entrate e le spese di tutti gli enti vengono rese realmente e “circostanziatamente” pubbliche. In Italia in proposito rammento che, in occasione dell’ approvazione del Bilancio dello Stato (pochissimi giorni prima delle dimissioni di Berlusconi), nessun giornale ha pubblicato i “numeri”, ma si è disquisito penosamente solo da che parte stessero i vari Scilipoti votanti.
Nel libro auspico che tutti i bilanci, non solo dello stato ma anche delle regioni e dei comuni, fino al più piccolo dei circa 7000 enti pubblici italiani, possano essere visionati e analizzati da ogni cittadino interessato, direttamente via Internet. Propongo inoltre che tutti i bilanci degli enti vengano certificati, oltre che da professionisti specializzati, anche da due rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione. Non è infatti possibile che ogni volta che in comune o al governo si insedia un nuovo sindaco o un nuovo presidente, questi lamentino l’ incoerenza e l’insussistenza dei fondi rispetto ai dati ufficialmente elaborati dai predecessori.
WSI – Lei propone anche uno snellimento delle strutture burocratiche, che in effetti risultano al momento elefantiache e che contribuiscono non poco alla spesa pubblica italiana.
M – Le 110 province dovrebbero essere eliminate, così come occorre sfoltire/aggregare almeno il 30% degli 8094 Comuni o il 40% degli enti pubblici di servizio, eufemisticamente definiti anche “economici”. È utile rammentare che le persone che attualmente in Italia ricoprono incarichi negli enti pubblici, o in società a essi legati, ammontano a circa 1.200.000 unità, con un costo annuo di non meno di 22 miliardi (altri economisti parlano di 24-25 miliardi), corrispondenti a 620 euro per ogni contribuente. Enormità da Stato sovietico! A ciò si aggiungano i circa 10.000 euroburocrati in charge all’Italia. Altre spese da contenere in modo significativo sono rappresentate dal numero incredibilmente alto di poliziotti, carabinieri, finanzieri guardie forestali, penitenziarie e assimilabili, che ormai hanno raggiunto l’abnorme rapporto di 1 su ogni 190 cittadini. Numeri enormemente superiori rispetto alle altre nazioni civili. Con quale livello di servizio, si chiedono in molti?
WSI – In tema di liberalizzazioni, invece, quali sono i passi che l’Italia deve ancora fare?
M – Non pensiamo solo ai notai (che in molti paesi non esistono, come liberi professionisti, oltretutto “castizzati”), ma sarebbe utile ridurre in modo drastico anche il numero dei consulenti del lavoro, dei commercialisti, degli avvocati e dei consulenti in genere . Pensiamo che in Italia, per ogni magistrato, operano ben 32 avvocati (ed anche i magistrati sono troppi, rispetto a benchmark internazionali…….). Sarebbe opportuno che gli accessi a Giurisprudenza, a Scienze Politiche ed analoghe facoltà fossero assoggettate, per qualche anno, a ferrei numeri chiusi. Snelliremmo anche così un apparato gigantesco di “professionisti della burocrazia” (che però spesso svolgono funzioni che in altri paesi sono affidate allo Stato, ad esempio in campo fiscale e di gestione delle ritenute fiscali, giuslavoristico e civilistico). Occorrono norme e regole più semplici e nuovi supporti self-informatici.
Faremmo così un grande favore anche alle nostre aziende, che, come noto, nel 95% dei casi, sono veramente troppo piccole. Esse infatti sono oberate da quasi 256 adempimenti civilistico- fiscali ogni anno e da troppi costi legati ai servizi che pagano alle categorie prima indicate. Con la loro riduzione, le aziende potrebbero rimettere in circolo, sotto forma di investimenti produttivi, tali alti oneri burocratici, che oggi sono costrette a sostenere.
WSI – Cosa propone per risollevare i fondamentali del Sud, che lei definisce ormai in uno stato di default?
M – Nel mio libro parlo della necessità di intervenire energicamente per evolvere la situazione sociale ed economica che attanaglia le regioni e la popolazione del Sud. Trattasi di problemi che vengono da lontano (che in dottrina chiamiamo sviluppo duale) e che rendono la situazione, a mio modesto giudizio, peggiore di quella della Grecia, qualora cessassero i cospicui trasferimenti che, a vario titolo e forma, provengono dalle altre regioni e dallo stato italiano.
Se il Sud fosse una nazione, la situazione spaventerebbe infatti più di quella ellenica. Sarebbe il caso di considerare il “commissariamento” dell’Area, con l’attivazione di un progetto “sociale e industriale” specifico (il “South Italia New Development”), prevedente anche l’invio in loco di 200-300 veri manager. I numeri parlano chiaro: in Italia esistono 4 milioni di dipendenti pubblici (cinque se considerassimo anche quelli solo formalmente privatizzati quali i postini, i ferrovieri, ed altre categorie analoghe), particolarmente presenti al Sud. L’area è diventata un immenso serbatoio occupazionale clientelare e non efficiente. Anche canalizzando meglio parte di tale forza lavoro, nel sud si potrebbero sviluppare nuovi presidii economici, industriali, commerciali e relativi ai servizi, centrali energetiche, infrastrutture, aree di nuovo turismo, punti di attracco delle merci per l’Europa, centri di ricerca e addestramento, avvalendosi eventualmente anche di anche giovani (maschi e femmine) inquadrati nel contesto di “Un anno per la res publica”.
WSI – Ma con un debito così alto, l’Italia avrebbe la capacità di sostenere al momento tali costi?
M – Io parlo di un progetto finanziato sia dall’Italia, sia, in misura molto minore, dall’Unione Europea. In generale, andando anche oltre il problema Sud, dobbiamo tener presente che l’Italia ha a disposizione circa 56 miliardi di euro (di cui 18 già finanziabili dalla UE e che rischiamo altrimenti di perdere). Trattasi di somme che devono essere finalizzate al lancio e all’esecuzione di importanti cantieri. A tal proposito sarebbe utile adottare anche una “Delivery Unit” governativa (impropriamente traducibile con il termine di Unità Operativa), assimilabile a quella a cui ricorse l’ex premier britannico Tony Blair e che si dimostrò un plus efficace del suo primo governo (nel gestire e monitorare sistematicamente le capacità di portare a reale compimento gli obiettivi pubblici e le riforme). Tutte le risorse dovrebbero essere gestite in modo trasparente, meritocratico e adottando precise metodologie di project management e di gestione e controllo, assicurandosi che i fondi vadano a finanziare concretamente precisi piani sociali e industriali predefiniti.
WSI – Cosa dire dell’art. 18 e del nodo del lavoro? Qual è la sua ricetta per risolvere il nodo del mercato del lavoro in Italia?
M – Ritengo l’articolo 18 uno specchietto delle allodole su cui il ministro Fornero e la leader della Cgil Susanna Camusso si sono strumentalmente incaponite. I veri problemi del lavoro in Italia sono ben altri, come la presenza dei numerosissimi inattivi (circa il 18% in più rispetto a varie altre realtà europee), dei disoccupati (oggi il 9,6% della popolazione, con le note e tristi punte però presso i giovani ed al Sud). Drammi per intere famiglie. C’è poi il lavoro nero con l’evasione contributiva e fiscale, quelli che non vogliono fare lavori manuali (per cui importiamo molti clandestini). Abbiamo circa il 50% dei laureati in meno, rispetto alle nazioni europee, purtroppo oltretutto concentrati in facoltà e materie poco utili per poter fronteggiare la competitività e la produttività internazionali. Da noi la formazione, già a partire dai banchi di scuola, è poco tecnica, poco rivolta a alla scienza, alla matematica, alla statistica, all’ ingegneria, all’economia e si fa poco addestramento. I licei propongono programmi vecchi di oltre 40 anni, spesso insufficienti persino dal punto di vista “umanistico”. E sono proposti da docenti impropriamente selezionati attraverso faraoniche e burocratiche selezioni nazionali. Per questo gli specifici ranking internazionali ci collocano vicino al Gabon. Dov’è il personale specializzato di cui molte aziende italiane hanno bisogno? Anche per questo aumenta la disoccupazione cosiddetta frizionale.
WSI – Arriviamo allo spread. Quanto dobbiamo spaventarci?
M – Lo spread è sicuramente un elemento critico, ma non riflette i fondamentali di un’economia (infatti è ben lungi dal rappresentare i mercati reali, così come concepiti dagli economisti classici). E’ solo un indicatore approssimato, di facilissima rilevazione ma troppo “socialmente emotivo”, che andrebbe ben altrimenti gestito. Ad esempio, in tale ottica, sarebbe opportuno incrementare i margini (dall’attuale 12,5%) sui futures e sugli altri derivati, specie se relativi a titoli pubblici e privati e sulle commodity (specie sul petrolio, per condizionare meno i prezzi spot di tale importante fonte) al fine di contenere certi trading finanziari ribassisti se non talora addirittura speculativi.
Pericoloso è anche riferirsi solo a rating di pochi operatori esterni, senza procedere ad analisi e valutazioni dirette. Operare per sentito dire.
In ogni caso l’Italia non fallirà. Intanto, bisogna fare lavorare i PolitTecnici, quali Mario Monti, che dovrebbe, a mio giudizio, rimanere dov’è almeno per cinque anni.
Questo è infatti il tempo minimo necessario per attivare un circolo virtuoso. In questi anni, oltre alla riduzione della spesa pubblica, come spiegato sopra, bisognerebbe procedere con ulteriori semplificazioni, liberalizzazioni, con le alienazioni di vari beni pubblici ma anche con nuovi conseguenti investimenti per lo sviluppo e la ricerca.
Essi andrebbero indirizzati verso la banda larga, certe infrastrutture, il turismo (da riportare almeno al 13% del Pil, rispetto all’attuale11%), le smart city, la riorganizzazione e la razionalizzazione organizzativa ed informatica della giustizia, lo sviluppo di nuove centrali elettriche (magari al torio, come ci suggerisce il premio Nobel Rubbia, anche allo scopo di attenuare gli altissimi livelli del pricing energetico italiano, del 29,6% superiori, rispetto alle altre nazioni europee e per smettere di importare ben l’85,3% delle nostre necessità).
Occorre poi riformare il sistema scolastico, combattere aggressivamente le troppe mafie, che bloccano la crescita di intere regioni (con meno uomini e magistrati, ma più preparati e con maggiore supporti tecnologici).