Società

“Italia, serve la bancarotta”

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news
Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Lettera 43 – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Parigi – A sinistra c’è il cafè Le metro, a destra il Ronsard. Uno di fronte all’altro, con la stessa veranda affacciata sul viale e lo spazio interno percorso dalla luce dei paralumi e dai riflessi degli specchi. In mezzo scorre Boulevard Saint Germain: 30 metri di asfalto antracite, bollente e polveroso, la colonna vertebrale della rive gauche parigina.

«Una volta, i giornalisti li ricevevo dall’altra parte: il proprietario del caffè abita al primo piano, proprio sotto il mio appartamento, peccato che mia moglie ci abbia litigato». Il teorico della decrescita, Serge Latouche, si presenta al tavolino del Ronsard con un affare di condominio e la fatica di attraversare la strada.

A dispetto delle lunghe gambe e dello sguardo da marinaio, l’economista 72enne sembra desideroso di restringere il mondo. Anche quello che lo circonda, fatto di caffé dove si dibatte di politica e flilosofia, da cui sono passati sia Adam Smith sia Karl Marx.

LA NECESSITÀ DI UNA DECRESCITA. Latouche ha cominciato a parlare di globalizzazione quando la parola non era nemmeno nei dizionari, ma da poco era stato pubblicato il rapporto dell’associazione non governativa Club di Roma sui limiti dello sviluppo e la fine del petrolio.

Ha riletto i liberali classici e il padre del comunismo e ne ha concluso che né il capitalismo concorrenziale teorizzato dai primi, né l’economicismo statalista di Marx sarebbero stati capaci di dar vita a una società in equilibrio con l’ecosistema.

Entrambi, anzi, avrebbero portato al collasso. Così ha messo in discussione il concetto di sviluppo come progresso, teorizzando la necessità di un dopo-sviluppo, della decrescita: l’uscita dal dominio dell’economia e una rifondazione culturale, fondata sulla limitazione dei bisogni.

CONTROCULTURA GLOBALE. Le sue idee si sono diffuse attraverso il mondo globalizzato, diventando la critica radicale del nostro tempo, la controcultura del mondialismo.

Oggi che è docente di Scienze economiche all’Università di Parigi Sud, i giornali aperti sul bancone del locale sembrano dargli ragione: parlano di rifiuti nucleari e licenziamenti, di nazioni indebitate e speculazione internazionale.

«Sappiamo già che l’attuale sistema crollerà tra il 2030 e il 2070», spiega a Lettera43.it, «il vero esercizio di fantascienza è prevedere che cosa succederà tra cinque anni».

DOMANDA. Lei ha un’idea?
RISPOSTA. L’Europa nata nel Dopoguerra farà la fine del Sacro romano impero di Carlo Magno che cercò di restaurare un regno crollato, durò per 50 anni e fu travolto dai barbari.

D. Che cosa c’entra l’impero romano?
R. Crollò alla fine del V secolo, ma non morì: continuò a sopravvivere per centinaia di anni con Carlo Magno, l’impero d’Oriente e poi quello germanico. Un declino proseguito nel tempo, con disastri in successione. Come succederà a noi.

D. È la fine della globalizzazione?
R. Io la considero una crisi di civiltà, della civiltà occidentale. Solo che, visto che l’Occidente è mondializzato, si tratta di crisi globale. Ecologica, culturale e sociale insieme.

D. Più di un crollo finanziario…
R. Se vogliamo andare oltre è la crisi dell’Antropocene: l’era in cui l’uomo ha cominciato a modificare e perturbare l’ecosistema.

D. E il sogno degli Stati Uniti europei?
R. È un’illusione. Perché è solo un prodotto della globalizzazione: non hanno costruito un’Unione, ma un mercato liberista.

D. Che fine farà il Vecchio continente?
R. L’Europa è schiacciata tra due movimenti. Uno politico e centrifugo che si è sviluppato anche in Italia con la stessa Padania. E uno economico e centripeto, la globalizzazione.

D. Per ora l’economia batte la politica…
R. Sì, il movimento centripeto ha il sopravvento. Ma è anche quello che nel lungo periodo andrà a crollare. Non può funzionare senza il petrolio e il blocco delle risorse materiali. Alla fine, con tutta probabilità l’Europa si dividerà in macro regioni autonome.

D. Come ci arriveremo?
R. La barca affonda e andremo giù tutti insieme. Ma non è detto che questo avverrà senza violenza e dolore.

D. Parla del conflitto sociale in Grecia e Spagna?
R. Ecco, putroppo siamo già dentro il capitalismo catastrofico. È solo l’inizio del processo, ma vediamo già gli effetti del mix di austerità e crescita voluto dai leader europei.

D. È comunque meglio della sola austerità…
R. Crede che l’imperativo della crescita funzioni? Basta guardare alla Francia: questo governo socialista vuole allo stesso tempo la prosperità e l’austerità. Ma non riuscirà a ottenere la crescita. O, se avverrà, sarà per pochi. Mentre l’austerità è sicura per molti.

D. Perché?
R. Perché non hanno scelta.

D. In che senso?
R. Sono chiusi dentro questo paradigma del produttivismo, del Prodotto interno lordo (Pil). È per questo che la decrescita è una rivoluzione. Perché prima di tutto è un cambiamento di paradigma.

D. Facile dirlo. Ma lei che cosa farebbe se fosse il premier italiano?
R. L’Italia dovrebbe andare in bancarotta.

“Il debito italiano non sara’ mai ripagato”

D. Che cosa intende?
R. Pensi al debito.

D. Secondo l’Fmi quello italiano è quasi al 140% del Pil.
R. Appunto: non sarà ripagato, lo sanno tutti. Ne è consapevole anche Mario Monti. Il problema, per l’attuale classe dirigente, non è ripagare il debito. Ma è fingere di poter continuare il gioco: cioè ottenere prestiti e rilanciare un’economia che è solo speculativa.

D. Quali sono le prime cinque misure che adotterebbe al posto di Monti?
R. Innanzitutto, cancellerei il debito. Parlo come teorico, so che ci sono cose che Monti non potrebbe fare comunque, neppure se fosse di sinistra o un decrescente. Ma sto parlando di bancarotta dello Stato.

D. La bancarotta è la soluzione?
R. È più che altro la condizione per trovare le soluzioni.

D. In che senso?
R. Non porta necessariamente alla soluzione, anzi in un primo momento le cose possono peggiorare. Ma non c’è altro modo, perché non esiste via d’uscita dentro la gabbia di ferro del sistema attuale.
L’Italia non sarebbe la prima né l’ultima. Tutti quelli che l’hanno fatto si sono sentiti meglio, da Carlo V all’Argentina.

D. Ma l’Argentina non era dentro una moneta unica.
R. Questo significherebbe uscire dall’euro, ovviamente, dentro non si può fare niente. Per questo dico che parlo come teorico: nemmeno i greci hanno avuto il coraggio di abbandonare l’Unione.

D. Siamo al terzo punto allora: uscire dall’euro, cancellare il debito e poi?
R. Rilocalizzare l’attività. C’è tutto un sistema di piccole imprese, di saper fare diffuso, che è stato distrutto dalla concorrenza globale.

D. Sì, ma come si fa?
R. Devo usare una parola che in Italia fa sempre paura: serve una politica risolutamente protezionista.

D. Su questo, il dibattito è annoso…
R. Esiste un cattivo protezionismo, è vero. Ma c’è anche un cattivissimo libero scambio. Mentre esiste un buon protezionismo, ma non un buon libero scambio.

D. Perché no?
R. Perché la concorrenza leale sempre invocata non esiste. E non esisterà mai. Semplicemente perché tutti i Paesi sono diversi. Come si può competere con la Cina? È una barzelletta.

D. Parla come se facesse parte della Lega Nord.
R. Lo so, lo so. E anche come uno del Front National. Sa perché ha successo l’estrema destra?

D. Me lo dica lei…
R. Perché non tutto quel che dicono è stupido. C’è una parte insopportabile, ma se sono popolari – e lo saranno sempre di più – è perché hanno capito alcune cose, hanno ragione. È questo che fa paura.

D. Quindi qual è la ricetta della decrescita?
R. Il protezionismo ci permette di non essere competitivi per forza. Se lo siamo in alcuni settori, bene. Ma possiamo anche sviluppare produzioni non concorrenziali. Stimoliamo la concorrenza all’interno, ma con Paesi che hanno altri sistemi sociali, altre norme ambientali, altri livelli salariali, questo non è possibile. D’altra parte, è stata l’eccessiva specializzazione a renderci così fragili.

D. Siamo alla quarta misura, quindi.
R. La tragedia attuale, per me, è soprattutto la disoccupazione.

D. E come pensa di risolverla?
R. Lavorando meno, ma lavorando tutti.

D. Una formula già sentita…
R. Sì, ma ci dicevano anche che la concorrenza attuale ci avrebbe fatto lavorare di più per guadagnare di più, come ha dichiarato quello sciagurato di Nicolas Sarkozy. E invece ci fa lavorare di più e guadagnare sempre meno: questo è sotto gli occhi di tutti.

D. Ma è una questione di denaro?
R. No, si tratta di vivere. Dobbiamo ritrovare il tempo per dedicarci al resto, alla vita. Questa è un’utopia, ma l’utopia concreta della decrescita: superare il lavoro.

Copyright © Lettera 43. All rights reserved