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ITALIA, SEGNALI DI VITA

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“Fra una storia e l’altra siamo ormai in crisi da sette anni. Però, nonostante questo, il sistema ha tenuto, non si è sfasciato tutto. Il fiuto e l’esperienza mi dicono che, se abbiamo tenuto, vuol dire che si sta preparando, da qualche parte, qualcosa di nuovo”. Giuseppe De Rita è uno dei più attenti esploratori (e conoscitori) della società italiana e è anche un ottimista praticamente indistruttibile. “Riconosco che sono cambiate molte cose, che ad esempio non abbiamo più una grande industria, ma non sono convinto che questo paese si sia incagliato definitivamente, che si sia arenato”.

Non mi dica che da qualche parte ha già scoperto un altro sommerso, un’altra Italia che va controcorrente e che si muove.

“No. Quelli erano gli anni Settanta. Allora era più facile. Mentre il grande dibattito era sul nuovo modo di fare l’automobile, sulla divisione internazionale del lavoro, si andava in giro per i distretti e si scopriva che c’era un’altra Italia, vitalissima e con delle cose da dire. Soprattutto c’era molto fare, molta vivacità. Ma allora, ripeto, anche se eravamo in pochi a girare per la provincia italiana era facile vedere il “nuovo” che si muoveva ai bordi della società, era tutto più semplice”.

E oggi non è più così?

“Non so se lei va ancora in giro per distretti, negli anni Settanta ci incontravamo spesso. Ma se oggi va ancora da quelle parti avrà visto che i distretti non esistono più. In un certo senso tutto si è fatto ancora più nascosto, più disseminato sul territorio. E, se vuole, aggiungiamo anche che, insieme ai distretti, è finita anche la grande industria. Questo è un paese che non ha più una grande industria. Tutti hanno scoperto il fascino delle utilities, insomma delle bollette a fine mese. C’è solo Umberto Agnelli che si ostina a voler fare industria, per una questione di rivincita sul 1980, quando lo costrinsero a lasciare la Fiat. Ma per il resto, ripeto, non c’è più niente, sotto questo aspetto si è davvero chiusa un’epoca”.

E questo non le sembra un segnale che il paese si è incagliato, definitivamente?

“Io sono un ottimista, ma non per questo mi rifiuto di vedere le cose. Vedo anch’io che il paese è incagliato, arenato. Il mio problema, e sto cercando di capire, è se siamo fuori gioco per sempre o se, invece, da qualche parte, qualcosa si muove. Mi rendo conto che sono cambiate delle cose. Negli anni Settanta l’attivo commerciale di Prato e di Sassuolo copriva i disavanzi di meccanica e chimica. Oggi non è più così. Quei “grandi numeri” non ci sono più. E questo è un fatto sul quale non si può discutere. Però”.

Lei ha il sospetto che sotto questa specie di grande rassegnazione italiana ci sia del movimento?

“Sto cercando di capire che cosa sta succedendo. E ci sono almeno quattro aree che vorrei esplorare meglio, dove sospetto che si nasconda la vita, in un certo senso”.

Quali sono?

“La prima è certamente data dall’esistenza di 200-300 medie aziende che non sono così lontane dal mercato, così fuori gioco come verrebbe facile di pensare. Non sono tante, 200-300, ma sono sufficienti a lasciar immaginare un futuro meno rassegnato. Penso a Merloni, che può diventare il numero uno del mercato europeo degli elettrodomestici o comunque un protagonista importante. Penso a Bombassei della Brembo, che non fa solo i freni per la Formula 1, ma che ormai ha una sua posizione importante sul mercato. E potrei andare avanti, ma non la voglio annoiare con tutto l’elenco. Queste aziende, comunque, ci sono e sono vitali. Qui non abbiamo morte e desolazione, ma aziende che vanno avanti”.

La seconda area?

“E’ quella che chiamo “la colata lavica” dei distretti. I distretti, quelli specializzati nel fare in genere una cosa e solo quella, sono andati distrutti, non ci sono più. Ma c’è stata come un’eruzione vulcanica. Quello che c’era dentro, e che oggi non più rintracciabile in aree limitate e circoscritte, si è allargato sul territorio, si è diffuso. E quindi è più difficile vedere queste realtà e capire che cosa sta succedendo. Tutto è diventato più invisibile. Ma sappiamo che non è andata persa la “cultura di nicchia”, che era tipica dei distretti. La piccola e piccolissima azienda italiana, insomma, è ancora qualcosa che conta, che esiste. Rispetto agli anni Settanta facciamo più fatica a vedere e a contare quello che avviene in questo mondo, ma sappiamo che lì c’è vita. Certo, bisognerebbe rifare un lungo giro in questi mondi per capire esattamente con che cosa abbiamo a che fare. Ma, per ora, e in attesa di riprendere le esplorazioni, diciamo che questo è un continente dal quale arrivano molti segnali di vita”.

La terza area?

“Si tratta di capire che il paese è cambiato molto più di quello che noi pensiamo. Io credo che oggi almeno un terzo della gente viva di redditi in parte misteriosi, che non hanno a che fare con il giro della grande economia, dell’industria, della finanza”.

E di che cosa vive, di contrabbando?

“No. Vive altrimenti. Vive di piccole cose. Pensiamo, ad esempio, a tutta l’esplosione dell’agriturismo, un’area che sfugge quasi completamente alle rilevazioni tradizionali. E lì c’è tutto un mondo collegato. Abbiamo la vendita dei prodotti tipici attraverso canali particolari. Abbiamo tutto il recupero di antichi borghi e , alla fine, queste operazioni, che magari cominciano per divertimento e come ricerca di una migliore qualità della vita, si trasformano in investimenti veri e propri. E c’è anche tutto un turismo minore molto vasto, quasi invisibile e comunque non rilevato, enormemente sommerso. Uno può anche pensare che tutto questo sia un mondo minore, irrilevante, marginale, ma sarebbe un errore. La “qualità del vivere” è una cosa importante, e sta diventando sempre più importante nel mondo moderno. E può diventare un’area non dico strategica, ma molto interessante. Essere capaci di mettere sul mercato una diversa e superiore qualità del vivere non è cosa da poco. E questo comincia a diventare una cosa grossa, in Italia, importante.
Da non trascurare”.

Quarto punto?

“C’è questa questione dell’impoverimento dei ceti medi”.

Cosa a cui lei, mi sembra di capire, non crede.

“No, non credo. Secondo me non c’è l’impoverimento dei ceti medi. C’è una cosa nuova e diversa: la paura di diventare poveri. Paura che fino a qualche tempo fa non c’era. E, per carità, so benissimo che la paura di diventare poveri è una cosa seria e che può avere conseguenze gravi. Ma non c’è l’impoverimento. Quello che c’è è che i redditi dei ceti medi non crescono più con la stessa progressione di una volta. Da qui i segnali di allarme, di paura, di preoccupazione. Io però penso che anche qui potrebbe accadere qualcosa di nuovo e di interessante”.

Ad esempio?

“E’ vero che la crescita dei redditi dei ceti medi si è fermata (o è molto rallentata), ma è anche vero che questi stessi ceti sono tutti molto a posto dal punto di vista patrimoniale. In genere dispongono, tanto per dirne una, di interessanti proprietà immobiliari. Solo che finora hanno gestito il mix reddito-patrimonio da ex-poveri (mi compro la casa così poi non pago l’affitto). Il modello di gestione di questa ricchezza (reddito più patrimonio) non si è rinnovato, è ancora quello di vent’anni fa. Io penso che questa situazione durerà ancora un paio d’anni al massimo. Poi la gente scoprirà di avere comunque alle spalle dei patrimoni consistenti e imparerà a gestirli in modo moderno, insomma a ricavarne dei redditi. E questo vorrà dire maggiori consumi, un’economia che gira meglio, con tutto quello che segue. Insomma, anche nell’area dei ceti medi (oggi descritta in crisi, con foto sui giornali da Mezzogiorno degli anni Cinquanta, la famiglia intorno al tavolo del tinello che dichiara di non farcela a arrivare a fine mese) si sta muovendo qualcosa. Non siamo affatto alla fine di tutto, alla proletarizzazione dei ceti medi”.

In conclusione, lei rimane ottimista.

“Io sono ottimista, ci mancherebbe”.

Però ammette che siamo incagliati?

“Certamente. Però non sono convinto che siamo diretti verso un declino inarrestabile. Stiamo andando verso un’Italia diversa da quella che abbiamo conosciuto. Un’Italia senza grande industria e senza distretti, ad esempio. E quindi anche un’Italia difficile da capire e da mettere a fuoco perché molto diversa da quella che abbiamo conosciuto e frequentato fino a oggi. Però, ci sono alcune cose che rimangono. Un ceto medio, ad esempio, che è più forte di quello che si è abituati a pensare e che tale rimane, forte, nonostante quello che si è letto di tremendo sui giornali negli ultimi sei mesi. Abbiamo una piccola e piccolissima industria che continua a esistere e a lavorare, anche se ormai è diventata di fatto invisibile persino agli occhi di quelli che negli anni Settanta erano pure riusciti a coprire il sommerso. Ci sono 200-300 medie aziende ben inserite sui mercati internazionali, competitive, radicate all’estero, e con buone carte da giocare. C’è il vivere altrimenti, il vivere di qualità, che sta crescendo. Insomma, forse ci sono più segni di vita di quello che vogliamo pensare. Certo ne sta venendo fuori un’Italia diversa da quella che immaginavamo negli anni Settanta e Ottanta. Un’Italia che magari ci risulta persino un po’ estranea. Ma probabilmente è un’Italia che non è definitivamente incagliata. Diversa, strana, forse addirittura incomprensibile, ma non incagliata definitivamente. Ripeto: se il sistema ha tenuto, nonostante sette anni di crisi, questo vuol dire che da qualche parte c’è vita, da qualche parte sta maturando qualcosa di positivo, di nuovo”.

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