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Italia: i numeri della crisi dal crack di Lehman

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Il contenuto di questo articolo – pubblicato da Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Sono passati, rispettivamente, cinque e dieci anni. È tempo di un bilancio: l’Europa sta offrendo una dimostrazione di potenza produttiva e allo stesso tempo attraversa qualcosa di simile alla Grande depressione. Quanto all’Italia, queste tendenze bipolari convivono in modo se possibile più estremo.

Sono passati cinque anni – siamo appena entrati nel sesto – da quando Jean-Claude Trichet interruppe le sue vacanze in Bretagna per compiere il gesto che simbolicamente certificò l’ingresso nella crisi finanziaria. Nell’agosto del 2007, l’allora presidente della Banca centrale europea lanciò le prime operazioni straordinarie di liquidità a favore degli istituti privati del continente. Presto sarebbe fallita Lehman Brothers, affondando l’economia dell’intera area euro.

Ma cinque anni prima di quella svolta di Trichet in Bretagna, a dieci anni esatti dalla settimana che inizia oggi, si svolgeva un po’ in sordina un altro episodio di svolta. Il 16 agosto 2002 il direttore del personale della Volkswagen, Peter Hartz, consegnava all’allora cancelliere Gerhard Schröder una nuova proposta sul welfare e il lavoro in Germania. Si chiamava «Agenda 2010». Hartz suggeriva di ridurre e poi togliere il sussidio ai disoccupati che rifiutassero un’offerta di lavoro; il manager della più grande casa automobilistica europea, cogestita con i sindacati, consigliava al cancelliere di rifondare l’intero sistema di tutele sul punto di lavoro. Centinaia di migliaia di persone sarebbero scese in piazza contro Schröder nei due anni seguenti, al punto che il cancelliere non sarebbe stato rieletto.

IL BILANCIO A DUE FACCE – A un decennio da quella visita di Hartz nel palazzo della Cancelleria, tutto sembra cambiato. Forza e devastazione economica convivono nello stesso spazio geografico. Basta guardare ai numeri, elaborando i dati armonizzati di Eurostat sul lavoro in Europa e quelli del Fondo monetario internazionale sulla crescita.

La Germania ha attraversato la peggiore crisi finanziaria dagli anni 30 continuando a creare posti su una traiettoria di crescita: più 6,3% cumulato dal 2007 per il prodotto interno lordo, benché nel solo anno dopo il crac di Lehman, il 2009, l’economia tedesca sia caduta del 5%. Nello stesso periodo la Spagna ha visto la disoccupazione salire dal 9% fino al 25% circa, lo stesso livello che raggiunse la quota di senza lavoro negli Stati Uniti al culmine della Grande depressione.

Ma il dato più sorprendente riguarda l’Italia: nel Paese la disoccupazione ufficiale resta relativamente contenuta al 10,8%, meno della metà che in Spagna. Eppure ha un posto regolare appena un italiano ogni tre, meno che in quasi tutti gli altri Paese europei. Spagna inclusa.

Secondo Eurostat gli occupati in Italia sono (al primo trimestre di quest’anno) 450 mila in meno che nel 2007, quando esplose quella che allora si chiamava la crisi dei subprime. Oggi su una popolazione che l’ufficio statistico europeo valuta in 60,8 milioni di residenti, lavorano solo 22,3 milioni di persone. È una quota del 36,8%, superiore – di poco – solo a quella della Grecia, un altro Paese con valori di disoccupazione e di caduta del Pil (meno -15% dal 2007) in tutto simili a quelli della Grande depressione americana.

L’economia italiana somiglia a una piramide rovesciata, la cui base formata da chi produce si restringe sempre di più. Se si eliminasse l’apporto degli stranieri, fra i quali svolge un’attività una quota più elevata di persone (circa il 44%), emergerebbe che i cittadini italiani effettivamente al lavoro sono poco più di uno su tre. Di rado gli economisti guardano a queste cifre, che fotografano i produttori di reddito in proporzione al totale dei consumatori di ogni età. Ritengono più rilevante la disoccupazione in senso tradizionale (data da chi cerca un posto) o il tasso di occupazione rispetto alla potenziale manodopera fra i 15 e i 65 anni.

L’ANOMALIA STORICA – Ma il dato dei lavoratori sul totale dei residenti rivela più chiaramente l’anomalia italiana, che viene da lontano e ha molte cause. In una fase di recessione prolungata, diventa solo più acuta e difficile da sostenere.

Una delle ragioni di fondo della «base stretta» della piramide è l’età media decisamente elevata della popolazione. La quota di pensionati è alta non solo perché nei decenni scorsi molti si sono ritirati in anticipo. Semplicemente, nel Paese vivono molti più anziani che in Spagna o in Grecia. L’italiano «di mezzo», quello più giovane di metà della popolazione e più vecchio dell’altra metà, oggi ha 43,8 anni. È uno dei livelli più alti al mondo con il Giappone (45,4 anni) e la Germania (45,3).

Nel frattempo però, per effetto delle riforme di Hartz, nell’economia tedesca lavora il 47,3% della popolazione totale a dispetto della quota di capelli bianchi più elevata che in Italia. Ciò segnala che una delle cause di fondo della sproporzione italiana fra chi lavora e chi no è nelle regole: in Germania attraggono sempre più persone verso l’impegno professionale, mentre in Italia è successo il contrario e ora resta da vedere quale sarà l’impatto della riforma Fornero. Si fa poi sentire anche un’ulteriore, ben nota, anomalia italiana: la partecipazione delle donne al lavoro è fra le più basse dei Paesi avanzati.
Tutto ciò spiega perché non appena la recessione morde, la quota di persone attive scende a livelli assoluti da Grande depressione. Scoraggiati, cassaintegrati, prepensionati, falsi invalidi, donne a casa per assenza di asili nido dove lasciare i figli: è questa la popolazione che non emerge nei dati di disoccupazione ufficiale e li fa apparire molto migliori che in Spagna o in Grecia.

IN ATTESA DEL RECUPERO – La ferocia del virus che ha colpito il lavoro nasconde un’altra particolarità del Paese, questa in parte positiva. L’intensità dell’impegno professionale (per chi può svolgerlo) è più forte che nella media europea, se non altro in termini di ore lavorate. È anche per questo che l’export italiano nel mondo nella prima metà di quest’anno è cresciuto, in proporzione, circa quanto il «made in Germany».

Non è detto però che ciò basti ad avvicinare una ripresa che non appare dietro l’angolo. Il confronto europeo e l’esperienza di questi anni suggerisce che l’export da solo, per il momento, non basta a trainare l’economia. Malgrado il relativo dinamismo delle vendite all’estero dal 2007 l’Italia è decresciuta circa come Irlanda e Portogallo, due Paesi sotto la tutela di un programma di salvataggio di Europa e Fmi. Se il Pil fosse caduto solo come in Spagna (-0,6%), l’economia nazionale oggi sarebbe di circa 45 miliardi più ricca; se l’Italia fosse cresciuta come la Germania, oggi sarebbe più ricca di 150 miliardi. Uno spreco di creatività umana e risorse produttive di proporzioni colossali, che può far riflettere chi è tentato di tornare indietro sulle riforme del lavoro o delle pensioni. Ma per loro, forse, la base della piramide rovesciata non è ancora abbastanza stretta.

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