(WSI) – L’ultimo allarme l’ha lanciato Mario Draghi, nelle «Considerazioni finali» lette lo scorso 29 maggio all’Assemblea della Banca d’Italia. Il peso dell’economia irregolare – ha sostenuto il governatore – è stimato in oltre il 15% dell’attività economica. L’occultamento di «una parte considerevole delle basi imponibili accresce l’onere imposto ai contribuenti ligi al dovere fiscale». Si tratta di un fattore «che riduce la competitività di larga parte delle imprese, determina iniquità e disarticola il tessuto sociale. Progressi nel contrasto delle attività irregolari consentirebbero di ridurre le aliquote legali, diminuendo distorsioni e ingiustizie».
Questione ben nota da decenni, i cui contorni sfuggono all’analisi e alla possibile individuazione delle soluzioni, con oscillazioni anche notevoli a seconda delle diverse metodologie di rilevazione utilizzate. Quel che certo non fanno difetto sono le definizioni: economia ombra (shadow), sotterranea (underground), nera-grigia (black-gray), non registrata (unrecorded), non ufficiale (unofficial), informale (informal), non osservata (unobserved), clandestina (clandestine), secondaria (secondary), parallela (parallel).
Partiamo dall’Istat che nel giugno del 2008, relativamente alla serie storica 2000-2006, ha stimato il valore aggiunto prodotto nell’area del sommerso economico «tra un minimo del 15,3% del Pil a un massimo del 16,9%». Dati che confermano quanto sostenuto da Draghi. Stiamo parlando di una montagna di ricchezza sommersa che oscilla tra i 227 e i 250 miliardi di euro. Una cifra spaventosa, un notevole vulnus inferto alla finanza pubblica e alla stabilità dell’intera economia nazionale da tale enorme imponibile sottratto a tassazione e al prelievo contributivo. E consola solo molto relativamente apprendere che gli andamenti nei sei anni “osservati” dall’Istat siano stati in qualche modo erratici: a un considerevole incremento nel 2001, anno in cui si è raggiunto il 20% del Pil, si assiste a una fase decrescente in cui si evidenzia «una contrazione anche in termini assoluti».
Fermiamoci al 2006. Nell’ipotesi massima (16,9% del Pil), il valore aggiunto sommerso nel settore agricolo risulta pari al 31,4% del totale (8,5 miliardi), al 10,4% nel settore industriale (42 miliardi), al 20,9% nel terziario (199,4 miliardi). Nel considerare il peso del sommerso nel terziario – avverte l’Istat – è utile tener presente l’effetto “calmieratore” del settore pubblico, dove il fenomeno è assente. Se si considera solo la parte di attività di mercato svolta dalle imprese, «il valore aggiunto sommerso si attesta sul 29,9% nel 2000 e sul 27,2% nel 2006». Quanto all’occupazione, il «tasso di irregolarità», calcolato come incidenza delle unità di lavoro sul totale, si attesta attorno al 12 per cento.
Sui dati però non vi è certezza. L’Economia, con una relazione presentata al Parlamento il 22 ottobre 2007 dall’ex ministro Tommaso Padoa-Schioppa, stima nel 18% il valore aggiunto dell’economia sommersa nel nostro paese. L’evasione in realtà non si esaurisce nel sommerso, e raggiunge fino al 21% della base imponibile Irap e il 33% dell’Iva. Livelli definiti «fino a quattro volte superiori a quelli dei paesi europei più virtuosi». In termini di gettito, si tratta di 7 punti di Pil di mancate entrate, che corrispondono a una perdita di oltre 100 miliardi l’anno. Un valore probabilmente sottostimato.
Per l’Fmi (stime 2002 su 84 paesi), l’Italia risulta al secondo posto con un’incidenza del 27%, preceduta dalla Grecia con il 30 per cento. Negli ultimi trent’anni il fenomeno del sommerso tra i paesi industrializzati dell’Ocse è raddoppiato: da una media al di sotto del 10% del Pil si è passati a oltre il 20%, e nel confronto con le altre economie europee, il nostro Paese si colloca sempre al secondo posto dopo la Grecia.
Misurare la non-observed economy – ammette l’Ocse – è operazione complessa. Il problema principale riguarda le procedure utilizzate «per raccogliere, elaborare, curare la pubblicazione delle informazioni statistiche di base tratte dai conti nazionali». I paesi più virtuosi sono Svizzera, Austria e Stati Uniti con un sommerso inferiore al 10 per cento. In un capitolo dell’edizione 2008 dell’Employment Outlook dedicato al lavoro nero, la stessa Ocse suggerisce di potenziare gli incentivi al lavoro dichiarato riducendo al tempo stesso il costo del lavoro in tutti quei paesi in cui sia eccessivo, accrescere la flessibilità «di quei paesi con legislazioni eccessivamente rigide» e potenziare «gli schemi di protezione sociale». Poi naturalmente occorre agire sul fronte specifico della tassazione e della previdenza sociale.
In una panoramica sul sommerso non può mancare una doverosa citazione del lavoro condotto dall’economista dell’Università di Linz, Friedrich Schneider, che utilizza un criterio di misurazione alquanto discusso tra gli addetti ai lavori: l’utilizzo del circolante. Stando allo studio presentato a Milano lo scorso 10 giugno da Visa Europe e A.T. Kearney in collaborazione con l’economista austriaco, in Italia il valore del sommerso ammonta a 350 miliardi di euro, pari al 24% del Pil, il più alto in Europa dove mediamente il “nero” incide per il 16 per cento.
In totale nel Vecchio Continente il sommerso si aggirerebbe attorno ai 2mila miliardi. Lo stesso Schneider in un lavoro del 2004 (Shadow economies around the world: what do we know?), colloca il valore del sommerso nel nostro paese al 26,2%, primato che tra i paesi Ocse ci viene conteso solo dalla Grecia (28,3%), con Spagna e Portogallo attestati al 22,3 per cento. Il fenomeno – scrive Schneider – risulta presente «in tutti i tipi di economia, sviluppata, in transizione, in via di sviluppo», ed è un po’ ovunque connessa al livello di tassazione.
A conclusioni opposte pervengono Luisanna Onnis e Patrizio Tirelli in un paper del dicembre 2008 (Challenging the popular wisdom. New estimates): negli ultimi dieci anni la dimensione relativa del sommerso è diminuita. L’elemento chiave non è la tassazione ma la crescita economica. Il lavoro irregolare – sottolinea l’economista Pietro Garibaldi – tende ad aumentare «quando la produttività diminuisce». In sostanza, l’opzione del lavoro irregolare «diventa in questo caso più conveniente». Ecco perché occorrerebbe «rendere inefficiente l’incentivo del lavoro nero e spezzare gli interessi delle parti».
Del resto, è pur vero che l’impresa che opera nel sommerso, e il lavoratore in “nero”, pur collocandosi in un segmento nascosto dell’economia, finiscono per entrare in contatto e interagire con l’economia “regolare” in molte occasioni. Dunque, l’economia sommersa nei paesi industrializzati finisce per convivere e per interagire a vari livelli con i meccanismi di mercato che governano il funzionamento del sistema economico.
La dimensione media delle imprese è certamente un altro degli elementi che spingono verso il sommerso. Non è un caso che proprio in paesi quali l’Italia, la Spagna e la Grecia in cui la crescita dimensionale delle aziende è più lenta, il fenomeno abbia acquisito maggiore rilevanza. Roberta Zizza («Metodologia di stima dell’economia sommersa: un’applicazione al caso italiano». Temi di discussione, Banca d’Italia, dicembre 2002) rileva come siano essenzialmente tre i comportamenti che concorrono alla formazione del sommerso economico: l’occultamento di tutta la filiera di produzione, la sottodichiarazione del fatturato, la sovradichiarazione dei costi.
In un paese con un’evasione da record mondiale, elementi non secondari sono costituiti poi dalla mancata condanna sociale dei fanomeni evasivi. Interessante, a questo riguardo, quanto rilevato da una ricerca dell’Eurobarometro dell’ottobre 2007. Nei 27 paesi Ue, più di metà della popolazione (55%) ritiene che «il rischio di essere scoperti nel mettere in atto un lavoro non dichiarato sia piuttosto scarso o molto scarso». In media, in giro per l’Europa vi è la convinzione che un cittadino su quattro-cinque eserciti un lavoro non dichiarato. In una comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 24 ottobre 2007, si sostiene che il lavoro sommerso costituisce ancora oggi «uno dei maggiori freni alla crescita e all’occupazione in Europa. Riduce gli introiti fiscali e minaccia il finanziamento della sicurezza sociale».
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