Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Thomas L. Friedman, nel suo
«The World is Flat» (libro già
cult, quindi più citato che letto), mette
in contrapposizione due date, pietre
miliari della storia contemporanea: il
9/11 e l’11/9. Tra l’una e l’altra ci sono
più collegamenti di quel che si creda.
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L’11 novembre 1989 quando crollò
il muro di Berlino, «mentre noi danzavamo
nelle strade e proclamavamo
che non c’era rimasta alcuna alternativa
ideologica al capitalismo
del libero mercato, qualcun’altro levava
il bicchiere, non di champagne,
ma di spesso caffè turco. Il suo nome
era Osama bin Laden. Per lui come
per Ronald Reagan, l’Unione Sovietica
era l’impero del male, ma bin
Laden vedeva anche l’America come
il male. Egli aveva un’alternativa
ideologica al capitalismo del libero
mercato: l’Islam politico. E non era
solo».
La caduta del muro di Berlino,
dunque, ha prodotto nello stesso
tempo la vittoria dell’occidente e la
nascita della più grave sfida portata
all’occidente dalla fine del comunismo.
Dall’11 novembre, dopo 12 anni,
è maturato anche l’11 settembre.
Per il brillante e pluripremiato columnist
del New York Times, alla fine
le forze che hanno «appiattito» il
mondo, cioè la rivoluzione tecnologica
che ha livellato il «campo da
gioco», accorciato le distanze e abbattuto
(più realisticamente ridotto)
le gerarchie, alla fine prevarranno.
Lo dimostrano l’India, la Cina, il sud
est asiatico. Ma il suo determinismo si
scontra proprio con la contraddizione
tra l’11/9 e il 9/11.
L’«alternativa
ideologica» è diventata progetto politico
e strategia militare. Anzi più progetti
e più strategie. Si è passati dalla
«guerra di liberazione dei luoghi
sacri da ebrei e crociati» (l’originario
obiettivo di Osama) all’attacco
al cuore dell’America. E, adesso,
alla campagna d’Europa. La stessa
al Qaeda nel frattempo è cambiata.
Già nel 1999 fu un pakistano
educato in Occidente, Khalid
Sheikh Mohammed, ingegnere
meccanico, ad architettare l’attacco
alle Twin Towers e convincere bin
Laden al termine di un incontro a
Kandahar. Gli afghani hanno fatto
proseliti anche tra i musulmani radicali
nati e cresciuti in Europa, la
cellula originaria è diventata una
rete, poi una galassia.
Chi sta vincendo. I danni sono
gravi, anche se il bilancio globale resta
in rosso. Nessuno degli odiatissimi
regimi arabo-laici è crollato per
dar vita a una teocrazia. L’Iran, sia
pur pericoloso, è isolato. L’Afghanistan
è perduto, l’Iraq è nel caos, ma è
difficile che diventi una repubblica
islamico-radicale. Quanto all’Occidente,
non s’è prodotto quel backlash
che, agli occhi dei jihadisti, avrebbe
potuto generare caos e alimentare
la rivolta. L’economia, scossa, non è
crollata. Le comunità musulmane
reggono. L’opinione pubblica dei
paesi democratici tiene i nervi saldi.
Le classi dirigenti non si sfaldano. Finora.
Perché (e qui Tom Friedman è
davvero troppo ottimista) un backlash
è visibile. La Spagna ha cambiato
governo e ritirato le truppe dall’Iraq.
La Francia e l’Olanda hanno sospeso
Schengen (la libera circolazione
degli uomini è una delle forze che
hanno contribuito ad appiattire
quanto meno l’Europa). L’Italia non
cede, ma comunque stringe le viti in
nome della sicurezza. Gli Stati Uniti
hanno già applicato leggi speciali. E
quelle britanniche (più blande) non
sono bastate. Prende piede la convinzione
che la democrazia si può salvare
solo se diventa un po’ meno liberale,
un po’ più protezionista.
Questa
guerra asimmetrica sta disseminando
batteri culturali altrettanto pericolosi
di quelli fisici. Per vincere,
dunque, non basta lo sviluppo delle
forze produttive, occorre una battaglia
di valori e bisogna dimostrare
nei fatti che quella «alternativa ideologica» è solo un mostro generato
dal sonno della ragione.
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