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IRAQ, QUALE RITIRO PER L’ ITALIA

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(WSI) – Stati Uniti e Gran Bretagna si preparano a riportare a casa tutte le loro truppe dall´Iraq nel giro di diciotto mesi. Bush e Blair non lo dicono apertamente, né parlano di «ritiro» come ha fatto nei giorni scorsi Romano Prodi per le forze italiane e come fecero prima di lui lo spagnolo Zapatero e altri leader dei Paesi della coalizione occidentale: ma la decisione è la stessa. Questo, perlomeno, affermano le indiscrezioni pubblicate ieri dal Sunday Times di Londra, citando fonti del ministero della Difesa britannico.

La questione vera per l’Italia è: vogliamo avere una politica estera o no? E’ saggio rinunciare ad avere un ruolo nell’area oggi più critica per i problemi che presenta? Vogliamo contare qualcosa e decidere in qualche modo di avere un minimo di responsabilità riguardo agli sviluppi degli affari di questo nostro mondo? Oppure, sotto le bandiere di un pacifismo di comodo, intendiamo ritirarci dalla Storia e contemplarci l’ombellico mentre gli eventi incalzano ed altri affrontano le scelte necessarie e se ne assumono le inevitabili responsabilità? Se la risposta dovesse essere affermativa è nostro dovere agire di conseguenza e mostrare un minimo di serietà e coerenza.

Con la fine della Guerra Fredda, una vera e propria minaccia ai nostri confini non esiste più, ma purtroppo non siamo ancora in grado di considerarci pienamente al sicuro. La nostra sicurezza è oggi soggetta ad altre pericolose minacce e, quando necessario, dobbiamo trovare la forza per essere uniti e disposti ad adottare una diplomazia della fermezza. Ciò sta anche a significare che le nostre Forze Armate devono esser messe in condizione di poter svolgere il proprio compito e per questo vanno modernizzate, tenendo in particolar considerazione flessibilità, efficienza, rapidità e facilità di dispiegamento.

Cominciamo dunque col renderci conto che non siamo in Irak come invasori, ma con un preciso mandato dell’ONU e su richiesta del governo di Baghdad. Nulla dunque di illegale e di prevaricatorio nella presenza dei nostri soldati in Irak, che si trovano a Nassirya con un preciso impegno: quello di contribuire alla stabilizzazione del Paese ed alla ricostruzione della società irachena, rimarginandone le ferite e placandone i dolori, a vantaggio non solo di quel popolo ma del Medio Oriente tutto intero.

Siamo, come nazione e classe politica, capaci di mostrarci all’altezza di questa sfida?

Se intendiamo risponder di si, dobbiamo anche renderci conto di avere a che fare con un progetto a lungo termine e che avrà esiti – si spera positivi – solo nel tempo ed unicamente se continueremo ad impegnarci a questo fine.

Un fallimento in Irak sarebbe cosa gravissima e potrebbe aprir le porte ad uno scenario che vede lo smembramento del paese con la parte sciita, a Sud, scivolare sotto l’influenza dell’Iran, col rischio di trasformarsi in una teocrazia; al Centro continui scontri tra sunniti e sciiti ed al Nord il tentativo, con possibili violenze che finirebbero con il coinvolgere arabi e turchi, di creare un’entità statale curda con tutti i possibili riflessi immaginabili che andrebbero ben oltre il solo Medio Oriente.

Soffermiamoci adesso un istante sull’Irak, paese che purtroppo nasce male, nel senso che la sua esistenza è relativamente recente e figlia dei giochi politici di alcune potenze occidentali a seguito della sconfitta turca nella prima Guerra Mondiale e della conseguente dissoluzione dell’Impero Ottomano.

Mentre la Francia, col consenso di Londra, affermava la sua presenza in Siria che decise poi di invadere ed occupare dopo la rivolta del 1920, la Gran Bretagna si diede da fare per stroncare una rivolta in Mesopotamia che aveva pensato bene di incorporare, insieme a Mosul, in un nuovo regno dell’Irak. Feysal, come premio di consolazione a seguito degli accordi anglo-francesi, ne accettò la corona.

Le recenti creazioni di Siria e Libano finirono così col trovarsi sotto mandato francese, mentre l’Inghilterra otteneva il mandato sull’Irak e la Palestina. Quest’ultima venne suddivisa in due entità, una aperta all’immigrazione ebraica e l’altra, ben più grande, che non lo fù, divenne il regno di Transgiordania, subito affidato ad Abdullah, fratello di Feysal.

L’Irak purtroppo non aveva mai costituito un’unità amministrativa sotto gli Ottomani e si rivelò presto un instabile amalgama di curdi al Nord e di mussulmani sunniti e sciiti al Centro ed al Sud. Inutile dire che questa sistemazione postbellica scatenò tutta una serie di ripercussioni delle quali ancora oggi continuiamo a scontare gli effetti.

Con la fine del 2005, nel presentarsi alle urne per partecipare alle votazioni della loro prima Assemblea Legislativa, i cittadini dell’Irak han dato prova di responsabilità e coraggio. Il 10 febbraio di quest’anno, una volta resi pubblici i risultati, si è potuto vedere che, nel suo insieme, questa Assemblea è da considerarsi rappresentativa dell’opinione pubblica del Paese. Se le cose dovessero andare per il verso giusto, si sarà finalmente compiuto un passo decisivo non solo verso la piena sovranità nazionale dell’Irak ma anche verso il mantenimento della sua unità territoriale.

L’anno scorso, più di 7.500 iracheni, in larghissima maggioranza civili, han perduto la vita mentre circa 8.400 son stati i feriti e mutilati. Con quest’anno le tensioni e le violenze non son scemate. Bisogna dunque capire che ci troviamo di fronte ad un processo di lungo respiro e che scorciatoie purtroppo non sono possibili. Le probabilità di successo sono tuttora incerte ed il ripristino dell’ordine e della legalità non è da considerarsi raggiungibile in termini brevi e prefissati.

In un Medio Oriente preda di forti fermenti e pericolose tensioni, le sorti dell’Irak rappresentano una posta in gioco fondamentale e l’impegno della comunità internazionale, Italia inclusa, è essenziale. Riavvicinandosi agli Stati Uniti, Berlino e Parigi han mostrato di capire che un fallimento in Irak potrebbe aver ripercussioni gravissime non solo in Medio Oriente ma anche in tutta l’area del Golfo e fino al Mediterraneo.

Ed ora veniamo a noi. Avendo preso la decisione di inviare un contingente militare in Irak e di partecipare all’edificazione di un paese libero, unito e sovrano, è doveroso far mostra di coerenza e responsabilità, anche per rispetto al sacrificio dei nostri uomini caduti in quella terra. Se è giusto ed indispensabile creare uno scenario credibile di ritiro di tutte le forze straniere, nostre incluse, ciò tuttavia non può accadere immediatamente, pena un’inevitabile precipitarsi della situazione con tutte le conseguenti ricadute possibili.

E’ dunque fondamentale discutere a fondo e senza preconcetti ideologici la questione dei tempi e delle modalità di ritiro delle nostre truppe. Se ciò non si dovesse fare e ci si lasciasse trasportare da emotività, pacifismo di comodo o da piccoli espedienti tattici, due cose sarebbero evidenti.

La prima è che si finirebbe col cadere nel gioco degli attentatori e dei terroristi che, a questo punto, potrebbero trar vantaggio dalla situazione ed affermare che se ce ne stiamo andando in fretta è stato merito delle loro azioni che hanno spezzato la nostra volontà di impegno. Così sostenendo, faranno passare il ritiro del nostro contingente per una sconfitta dell’Italia ed otterrebbero un grosso vantaggio tattico e psicologico.

La seconda è che ci si dovrebbe interrogare seriamente sui motivi della partecipazione delle nostre Forze Armate nel teatro iracheno come parte della coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti. Per esempio: quali sono i nostri obiettivi politici e militari?
Qual è l’interesse e la competenza della nostra classe politica per le questioni militari nazionali e multinazionali? Ci si rende conto che ogni tanto, a seguito di un impegno militare all’estero, si possa anche sparare e morire? E inoltre: vogliamo avere una politica estera capace di includere ambizioni strategiche? E’ nelle nostre intenzioni e capacità di aderire ad imprese belliche multinazionali anche se comportano pericoli sicuri? Oppure nostra ottica ed ambizione è quella di intervenire furbescamente a cose fatte, sperando di scansare i rischi ed ottenere qualche merito a poco prezzo, per poi uscirne alla spicciolata vanificando tutte le azioni compiute, le cose fatte ed il tributo di sangue, di coraggio e di sudore generosamente offerti dai nostri soldati?

In conclusione vale la pena sottolineare una cosa sola e questa è, che fatti tutti i conti, il giudizio sul nostro impegno in Irak dipenderà quasi esclusivamente dal come saremo capaci di gestire ed organizzare il ritiro delle nostre forze.

Possiamo decidere di porre termine alla nostra missione lasciando il paese a testa alta, forti in onore ed in prestigio oppure rinunciare a trar credito dai sacrifici e dall’opera dei nostri uomini.

Possiamo cadere nei piccoli e miserabili giochi di tattica politica o perseguire e tutelare con coerenza e decisione gli interessi nazionali.
Possiamo dar lustro al nostro Paese ed alle sue Forze Armate creando interesse e competenza per le questioni militari e mostrandoci capaci di affrontare missioni pericolose e disposti a combattere per qualcosa oppure continuare a descrivere queste operazioni con terminologie da soccorso medico o da associazioni di volontariato, cercando di sfruttare quando possibile il trito feticcio dell’archeologia e del solito recupero, quasi sempre di scarsissimo valore.

Ricordiamoci sempre che il ruolo dell’Italia nel mondo sarà proporzionale all’influenza che saprà esercitare. Per quel che riguarda gli oneri ed i rischi del dopoguerra iracheno, chi decide di tornarsene a casa in anticipo avrà meno da rivendicare e da ottenere ed alla fine il paese verrà giudicato non solo dal ruolo e dalle prestazioni delle sue Forze Armate ma anche, e soprattutto, dalla coerenza e dalla fermezza mostrate dalla Politica.

P.S. Se non vi fosse stato l’intervento in Iraq, avrebbe il Gheddafi così drasticamente
cambiato politica, rinunciando a tutti i suoi programmi militarii e riavvicinandosi di corsa all’Occidente? La Siria si sarebbe, dopo oltre un ventennio di occupazione, ritirata così velocemente dal Libano ed Israele avrebbe inviato il suo esercito a sgomberare i coloni dalla striscia di Gaza?