La discesa del valore del dollaro sta subendo una forte accelerazione. Infatti, il biglietto verde ha toccato un nuovo minimo storico rispetto alla moneta unica europea, il minimo degli ultimi sette anni nei confronti del franco svizzero, degli ultimi cinque anni nei confronti della sterlina britannica e il minimo degli ultimi tre anni nei confronti dello yen giapponese.
La causa della caduta del dollaro è nota: gli Stati Uniti hanno bisogno che ogni giorno affluiscano negli Stati Uniti 1,5 miliardi di dollari per finanziare il disavanzo della loro bilancia commerciale. Ma il movimento di capitali verso gli Stati Uniti si è inaridito (nello scorso mese di settembre l’afflusso netto di capitali è stato di poco superiore ai 4 miliardi di dollari) e continua ad inaridirsi (uno studio della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ha messo in luce che i paesi dell’OPEC stanno convertendo i dollari guadagnati grazie alla vendita del petrolio in altre valute in quantità sempre maggiori).
Non si vede inoltre quali investitori privati europei o asiatici potrebbero avere interesse ad investire in dollari, dato che i tassi sia a breve sia lunga scadenza sono inferiori a quelli offerti dall’euro e dato che sugli investimenti in azioni americane pesa un forte rischio di cambio. Quindi, gli unici acquirenti di dollari sono le banche centrali asiatiche (in particolare quella giapponese e quella cinese), che in questo modo «autofinanziano» le loro esportazioni negli Stati Uniti.
Ma anche la disponibilità asiatica a sostenere il biglietto verde dovrà superare la prova del vertice di questa settimana tra il presidente Bush e il primo ministro cinese Wen Jiabao su cui si staglia non solo l’ombra della questione di Taiwan, ma anche e soprattutto quella delle misure commerciali americane contro l’importazione di alcuni capi di abbigliamento e di apparecchi televisivi. La duttilità del governo cinese permetterà sicuramente di evitare una prova di forza, ma la politica di cambio dei paesi asiatici, che sono tra i principali partners commerciali degli Stati Uniti, continuerà a rendere insignificante il miglioramento della bilancia commerciale statunitense dovuto al deprezzamento del dollaro.
Basti pensare che il won coreano, il baht thailandese e il dollaro di Taiwan si sono addirittura deprezzati rispetto a un biglietto verde già debole e che il renminbi cinese, il dollaro di Hong Kong e il ringitt malese sono legati con un tasso di cambio fisso al dollaro.
Quindi, il calo del dollaro colpisce principalmente l’economia europea e soprattutto le sue esportazioni, che finora non ne hanno risentito poiché hanno beneficiato del boom asiatico e della forte ripresa americana. Ma questo atteggiamento di «benign neglect» è destinato a cambiare se continuerà la discesa del dollaro e soprattutto se la tendenza al ribasso subirà una forte accelerazione.
Infatti, tutto induce a ritenere che la discesa del dollaro, finora relativamente ordinata, possa, da un momento all’altro, trasformarsi in una repentina e violenta caduta e cominciare ad incidere sull’andamento dei mercati dei capitali e dei mercati azionari. Finora la discesa del dollaro non ha spinto al rialzo i tassi americani. Ad esempio, il rendimento dei titoli di stato decennali tedeschi in euro sono ancora di alcuni punti base superiori a quelli americani. Quindi, sorprendentemente, il mercato dei capitali americani non sta scontando non solo il deprezzamento del dollaro, ma nemmeno la forza della ripresa americana che molto probabilmente spingerà la Federal Reserve a ridimensionare la sua promessa di non toccare i tassi «per un considerevole periodo di tempo».
Il mercato dei capitali è convinto che la Federal Reserve non cambierà presto politica e quindi non si preoccupa per il calo del dollaro, poiché la curva dei tassi molto ripida e la politica monetaria espansiva assicurano abbondanti finanziamenti. Dello stesso parere non sembrano essere moltissime società statunitensi che stanno accelerando i tempi delle loro emissioni obbligazionarie poiché temono un aumento del costo del denaro.
Non è quindi azzardato ipotizzare che il mercato dei capitali negli Stati Uniti è alla vigilia di una forte correzione. Lo stesso discorso vale per le borse europee, che viaggiano attorno ai massimi dell’anno. In Europa i mercati azionari non hanno subito alcuna significativa correzione a causa del rafforzamento dell’euro e del franco svizzero che riduce il volume degli utili conseguiti dalle società quotate nell’area dollaro.
Si ha dunque l’impressione che finora non abbiano giocato le abituali correlazioni tra i diversi mercati e che, quindi, gli effetti del calo del dollaro siano trascurabili. Questa convinzione rischia di rivelarsi un’illusione e l’accelerazione della discesa del dollaro è destinata a provocare aggiustamenti rapidi anche per i corsi di obbligazioni ed azioni.
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