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(WSI) – Mi consenta diceva un tempo il presidente Berlusconi: e si poteva cogliere un che di lezioso, in quella poi celebre formula, ma anche il principio della buona educazione. Ecco: dal «mi consenta» del 1994 ai «coglioni» di ieri si consuma l´avventura, pure lessicale, del berlusconismo. Il Cavaliere, semplicemente, non poteva trattenersi dal dirlo. Gli succede sempre più spesso. Sui bambini bolliti dai cinesi, ha poi ammesso: «Non potevo fermarmi».
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A Vicenza, dopo lo sfogo contro gli industriali e Della Valle, si è indicato il gozzo e ha detto: «Ce l´avevo qui». Nel secondo duello, toccato da una battuta di Prodi, se n´è uscito: «Faccio fatica a trattenermi». Due settimane fa, a Genova, un ragazzo l´ha contestato per strada, urlandogli contro qualcosa su Mangano, lo stalliere. A quel punto il presidente del Consiglio s´è fermato: «Tu non ti puoi permettere». E guardandolo negli occhi, a muso duro: «Tu sei un coglione!».
Ora, ai politici – a tutti i politici – dà sempre un grande sollievo poter dire, dopo qualche insulto: «Quando ci vuole, ci vuole», con le dovute varianti dialettali. È comunque un´espressione, questa, che li fa sentire caldi, spontanei e perfino umani, perché a tutti in fondo scappa la parolaccia, e loro sono «come tutti». Ma in Berlusconi il passaggio dall´affettazione alla volgarità, da un linguaggio sostanzialmente perbenista e mirato a conquistare la simpatia e l´affetto del pubblico, ecco, questo cambiamento non solo è evidente, ma indica qualcosa di indicibile, l´indizio, il segno o la rivelazione che il Cavaliere sta perdendo ciò che è più importante in politica: la grammatica del rispetto.
Poi, come spesso accade – e a lui sempre più spesso – il tentativo di aggiustamento della gaffe l´ha in verità aggravata e rivendicata. Prima quando ha detto sul palco: «Scusate il linguaggio rozzo, ma efficace». Quindi all´uscita: «Era un´ironia» – povero Socrate. O addirittura: «Era un modo affettuoso». E infatti: «L´ho detto con il sorriso sulle labbra». Magari per smentire l´ultima copertina di Newsweek dove campeggia un Berlusconi immusonito, molto Caimano, e la scritta, appunto, che pone l´interrogativo: «Why Silvio isn´t smiling».
Ecco. A pensarci bene, a rivedere alla moviola «la scena dei coglioni», è proprio il modo inconsapevolmente livido con cui il premier ha pronunciato quel termine che mette a nudo la rottura dei suoi stessi codici linguistici. È la mancanza di sorriso che chiama l´insulto basso e villano, il disprezzo triviale che Berlusconi sembra aver mutuato dai suoi peggiori nemici, quegli stessi di cui si dichiara vittima da oltre dieci anni.
Non è più il linguaggio potenzialmente eversivo, ma accattivante che hanno studiato fior di studiosi e glottologi di varie scuole in tanti articoli e libri: Augusta Forconi, Parola di Cavaliere (Editori riuniti, 1997); Giorgio Fedel, Parola mia. Sulla retorica di Berlusconi, rivista Il Mulino, 2003; Sergio Bolasco, Luca Giuliano, Nora Galli de´ Paratesi, Parole in libertà, Manifestolibri, 2006.
Non è più la barzelletta pesante, o il complimento grossolano su gambe di congressiste, tette e ombelichi di croniste. È una metamorfosi al tempo stesso evoluta e regressiva che spinge questo ricco e potente uomo di governo a dire, ma anche a fare cose sempre più strane. Piccoli grandi incendi personali appiccati nel pagliaio dell´immaginazione collettiva. Spostamenti mentali, paesaggi onirici. Il voto di castità elettorale offerto a un sacerdote sardo, e poi sconfessato. La telefonata propagandistica notturna alle operatrici delle hot-line (sei su otto si sono dichiarate ammiratrici di Berlusconi, le altre due non interessate alla politica). L´agghiacciante scenetta improvvisata durante la visita di una scolaresca a Palazzo Chigi, così descritta l´altro giorno da un piccolo testimone: «Secondo lui tutte le ragazze sopra i 23 anni nel mondo dello spettacolo si rifanno, e mentre lo diceva ha messo le mani sul petto facendo finta di sollevarsi i seni». Un presidente del Consiglio. Un uomo di quasi settant´anni.
Così ieri sera l´agenzia Ansa metteva in rete un ameno e dotto dispaccio dal titolo: «Gli “attributi” della politica, da Cicerone a Berlusconi». Sottotitolo: «Un filo rosso tra l´antico “coleus” e il “coglione” di oggi». E allora nelle redazioni politiche si rideva, si scherzava, si ricostruiva il passato compulsando archivi e banche dati, certo con scrupolo degno di miglior causa.
Per cui sì, certo, ci mancherebbe: non è la prima volta che il Cavaliere pronuncia quella parola lì. Già nel 1994 telefonò a Maroni per dirgli: «Allora, è ufficiale: quello lì – e qua c´era il nome di un esponente referendario allora assai in voga – è un coglione». Così come l´anno seguente, intercettato una notte in un piano bar di Cernobbio, sempre il Cavaliere qualificò di coglione un futuro vicepresidente del Consiglio del Pds, o Ds, o come si chiamava allora quel partito. Poi fece marcia indietro: «Si dice per dire. Se quello fosse davvero un coglione non sarebbe dov´è». E così via, secondo la più celebrata competenza comunicativa.
Ma allora Berlusconi era un uomo e un politico molto, ma molto più spensierato di oggi. Non era Sgarbi, né Borghezio. E se proprio doveva dare del coglione a qualcuno, e non a decine di milioni di italiani, lasciava germogliare l´offesa in campo per così dire informale, o privato. Oggi invece quella parola, «coglioni», quella squisitezza di massa, fermenta nel mezzo del discorso pubblico, segno di cruda vitalità e disperata degradazione.
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