Società

IN ITALIA FUGA
DI LIQUIDITA’

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(WSI) – Case d’affari al bivio. Per non dire in palese conflitto d’interessi. La moria di Ipo delle ultime settimane non penalizza soltanto le società respinte dal listino di Piazza Affari, ma anche le banche d’investimento che curavano gli stessi collocamenti. «Portare una società in Borsa, di questi tempi, non è certo una passeggiata di salute – spiega un influente banchiere – Il più delle volte, ormai, ci troviamo a tavolino con l’impresa quotanda per stabilire se proseguire o meno con un’operazione a sconto del 15-25% rispetto alla forchetta minima iniziale». E non sono decisioni facili. Sia per la società sia per la banca, che – in caso di annullamento dell’Ipo – si ritrova con un pugno di mosche in mano, essendo le commissioni legate alla buona riuscita del deal.

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Ma quanto vale un collocamento in Borsa per un investment bank? Circa il 2% del capitale che finisce sul mercato: per 1 miliardo sono circa 20 milioni, di cui tuttavia soltanto il 70% (14 milioni) finisce in tasca alla maison. Un ammontare cospicuo per una casa d’affari italiana ma decisamente meno significativo per una estera. Eppure – stando al tam tam degli equity desk – nei fatti sarebbero proprio le banche del nostro Paese a dimostrarsi meno attaccate alle commissioni, consigliando talvolta alle quotande di rimandare lo sbarco sul listino. Diversamente, taluni istituti esteri – meno legati alle aziende da un rapporto di lungo periodo e più orientate alla chiusura del singolo deal – preferirebbero tagliare il nodo di Gordio del conflitto d’interessi e mettere comunque a segno l’operazione.

Le alternative, altrimenti, sarebbero due: o una riduzione dell’ammontare dell’offerta (è stato il caso, in passato di Isagro e Dmt) oppure un abbassamento del prezzo. Ed è quello che potrebbe accadere a Pirelli Tyre, che a fronte di una forchetta iniziale tra 7,4 e 9 euro potrebbe infine andare in Borsa attorno a 6,6 euro.

Ma che cosa c’è dietro le 13 Ipo fallite in tutta Europa? Un mercato del compratore, ad alta volatilità. Ma soprattutto una terribile emorragia di liquidità, un aspetto fino a oggi sottovalutato. I grafici in pagina illustrano l’andamento dei money flow (i flussi dei capitali degli investitori istituzionali), che dallo scorso inverno hanno bruscamente preso la strada di Stati Uniti e Giappone, fuggendo invece dall’Europa. Questo a prescindere dall’andamento incerto di tutti i listini mondiali: l’esodo di liquidità dal Vecchio Continente si è anzi accentuato dal maggio scorso, quando le Borse hanno corretto pesantemente. E il fenomeno è stato particolarmente violento proprio in Italia, dove a maggio la raccolta dei fondi azionari è stata disastrosa, culmine di un trend che dura da qualche mese. Immediato il riflesso negativo sulle Ipo. Gli stessi fondi, costretti a rimborsare i sottoscrittori, hanno immediatamente chiuso i rubinetti degli investimenti, diminuendo soprattutto il sostegno ai nuovi collocamenti in Borsa.

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