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(WSI) – C´è voluto un po´ di tempo, ma si comincia a capire che questa crisi (anche se non avrà le dimensioni catastrofiche di quella del 1929) rischia di fare moltissimi danni. Alcuni dei quali forse irreparabili, e sui quali varrebbe la pena, un giorno, di riflettere. Abbiamo appena visto che l´intera industria mondiale dell´auto (che contava le maggiori aziende del pianeta, giganti grandi come Stati) è in ginocchio. Abbiamo visto i maghi della giapponese Toyota (campioni e inventori del “nuovo modo” di produrre auto) diventare primi nel mondo, superando la “storica” General Motors, per finire poi in crisi nel giro di poche settimane.
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Tra i vari imputati sul banco di questo periodo di grande ripensamento ci sono le banche di tutto il mondo per i sub-prime, le cartolarizzazioni, i veicoli fuori bilancio e tanta altre cose. Ma ci stiamo accorgendo che non sono i soli colpevoli per quanto sta accadendo. C´è un altro aspetto del problema che sta emergendo con grande chiarezza: quello delle operazioni a forte leva finanziaria (insomma, fatte con i debiti e i soldi delle banche). Per limitarsi al nostro paese, si pensi al caso Ferretti (uno dei tanti, purtroppo), tuttora vanto dell´industria italiana nel mondo del lusso, che ci ha consentito di esportare prodotti di fascia altissima, di quegli oggetti del desiderio (grandi e bellissimi yacht) che sembravano costituire un filone che poteva non dover finire mai.
Oggi questa è un´azienda che ha difficoltà con i fornitori. E c´è da sperare che tutto vada a posto con i dipendenti e che non sorgano problemi anche su quel fronte. Ma cosa è successo? Molto semplice: troppi debiti già alla partenza. La società infatti è stata pagata circa due miliardi di euro che i soci hanno diviso in poco più di 300 milioni di euro di capitale ed il resto di debiti. In realtà una parte di questi debiti, 400 milioni, venivano degli stessi soci, per cui in un certo senso era come se fosse capitale.
Oggi tutto ciò, è in pericolo. Il debito vero, quello concesso dalle banche, era di circa 1,3 miliardi, quasi il doppio del fatturato. Una cosa assurda perché non si capisce in quanti anni sarebbe stato – almeno in teoria – ripagato. Oggi tranches di quel debito sono offerte in vendita con sconti che toccano il 75/80 per cento del valore facciale. E nessuno le vuole perché i tempi sono comunque difficili. Gli amministratori tremano, i sindaci sono molto preoccupati, ma soprattutto le banche stanno facendo un “mea culpa” sulle modalità di concessione del credito degli scorsi anni. Cosa succederà della società è cosa che dipende dalla disponibilità dei soci di mettere mano – ex post – a quel portafoglio che non hanno voluto utilizzare all´atto dell´acquisizione.
Però la questione e’ complicata perché i soci sono – essenzialmente – quei famosi fondi di private equity che non hanno alcun dovere verso le società nelle quali hanno investito. In teoria potrebbero fare spallucce e dire che si sono sbagliati, o che sono stati sfortunati e lasciar andare tutto alla rovina. O lasciare andare la società nelle mani di chi potrebbe essere disposto a raccogliere ciò che è rimasto. Se lo si trova.
Negli Stati Uniti, mesi fa, il gruppo Carlyle ha lasciato fallire un fondo che aveva accumulato 16 miliardi di dollari di debiti senza fare una piega. Ma se anche le aziende simbolo di quest´Italia eccellente, esportatrice vengono travolte dai debiti di cui le hanno caricate finanzieri e banche senza scrupoli, cosa resterà di sano? La sola classica azienda meccanica di Reggio Emilia con l´imprenditore che si alza alle cinque del mattino e riesce ad esportare in tutto il mondo? O quel poco di made in Italy che è riuscito a passare indenne attraverso la furia distruttrice del private equity?
In questi giorni si sente dire che anche altre aziende del nostro made in Italy avrebbero problemi di eccesso di debito dovuto ad acquisizioni troppo aggressive. Possibile che ci sia stato un filone cosi grande e violento di finanziamenti disinvolti da rischiare di travolgere società di questo livello e marchi rinomati ovunque? Speriamo di no. Però la distruzione di valore a cui si sta assistendo è enorme e se anche in Borsa i crolli sono mediamente del 50/60 per cento, nella finanza più sofisticata molti hedge funds hanno perso più del 90 per cento ed il capitale di una parte di questo genere di private equity sembra interamente perduto. Per eccesso di ingordigia di chi lo ha gestito e per eccesso di faciloneria di chi lo ha finanziato.
Commissioni e parcelle di decine di milioni di euro hanno ruotato attorno a questo mondo fino a poche settimane fa, e anche grandi di professionisti hanno consentito e avallato questa enorme distruzione di valore. Ma, soprattutto, sta accadendo che si rischia di perdere alcune aziende del made in Italy. Dopo la crisi, cioè, potremmo essere più poveri non solo nel portafoglio, ma anche nella dotazione “glamour” del paese. Insomma, più poveri e meno invidiati per tutto “il bello” che in questi anni le nostre aziende sono riuscite a esprimere.
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