Società

IMPRENDITORI
SENZA CORAGGIO PREFERISCONO RENDITE E VILLE

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(WSI) –
A 71 anni e avendo nominato alla testa del proprio impero un amministratore delegato che ne ha trenta meno di lui, Leonardo Del Vecchio dice di volersi “godere la vita, leggere, perfezionare l´inglese”. In realtà è a Pechino per lanciare il potenziamento della sua rete vendita cinese: 270 negozi destinati a diventare migliaia entro pochi anni. Domani sarà a Dongguan nel Guangdong dove ha tremila operai che producono otto milioni di paia di occhiali all´anno. Del Vecchio non è solo uno degli uomini più ricchi – e più discreti – d´Italia.

Il leader mondiale nel design, produzione e distribuzione di occhiali è anche l´antitesi di alcuni stereotipi sul nostro capitalismo nazionale: cioè il nanismo congenito delle nostre imprese, l´incapacità di diventare globali, l´intreccio con la politica.

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La sua storia dimostra che si può credere nel capitalismo familiare – lui conserva il controllo di Luxottica con il 69% del capitale – e al tempo stesso comportarsi come una public company: non solo si quotò al New York Stock Exchange (nel 1990) dieci anni prima che a Milano, ma ha retto la prova più recente della Sarbanes-Oxley, la severa normativa sulla trasparenza imposta alla Borsa americana dopo lo scandalo Enron.

In realtà non aveva bisogno di quotarsi, “ma il mercato non mente, i suoi segnali sono importanti per capire se faccio degli errori”. E´ in nome di questo rispetto per il mercato che Del Vecchio declinò l´invito a entrare nella cordata dei Tronchetti e Benetton quando gli offrirono di scalare la Telecom con loro. «Si trattava di comprare i titoli Telecom a 4,17 euro, una quotazione che l´azienda non ha mai raggiunto in Borsa, quasi il doppio di quel che vale oggi. Io dissi: scordatevelo.

E´ una regola che purtroppo si avvera sempre: quando si compra a prezzi esagerati le conseguenze sono deleterie e le paga l´azienda stessa. Anzitutto perché il primo obiettivo dell´acquirente diventa quello di ridurre i debiti e quindi la gestione viene subordinata a priorità di tipo finanziario, non industriale. E poi perché questo determina una debolezza di cui approfittano i concorrenti».

Allarme-irizzazione o paura che venga fatta a pezzi e venduta all´estero, la vicenda Telecom suggerisce un esame dei limiti del capitalismo italiano. Oggi sembrano non esistere grandi imprenditori disposti a rischiare in proprio. Si cerca il potere, un ruolo di comando, magari anche una visibilità e un´influenza politica, sempre con i soldi degli altri.

«Sì ma la correggo sulle date: questo non è un difetto di oggi. Il capitalismo italiano delle grandi famiglie è sempre stato così. Quello vecchio non era migliore. Le dinastie non hanno mai tirato fuori una lira di tasca propria per le aziende. Non difendo quelli di oggi, dico solo che prima non si stava meglio. I percorsi biografici da veri industriali scarseggiano».
I piccoli imprenditori non sono molto meglio. In America si nasce piccoli, magari inventando un nuovo prodotto nel garage di casa, per poi diventare Microsoft o Hewlett-Packard in una sola generazione. Da noi la micro-dimensione sembra una vocazione.

«Spesso anche i piccoli imprenditori italiani non reinvestono nella loro azienda. Il mio Veneto non ha grandi imprese eppure c´è una notevole ricchezza diffusa. Il guaio è che appena arrivati a una certa soglia di successo molti preferiscono mettere i capitali nella villa in Sardegna e nella rendita finanziaria. Poi c´è la malattia dell´individualismo. Ricordo ancora quando ero sul punto di acquistare un mio concorrente: sembrava d´accordo su tutto, all´ultimo momento ci ripensò perché preferiva essere numero uno di un´azienda più piccola anziché partner e azionista di un gruppo molto più grande. Non è con una cultura di questo tipo che si costruisce la Unilever».

Lei ha avuto un´avventura nella “diversificazione” che l´ha portata a contatto con le grandi imprese dei servizi, e ha potuto osservare alcuni intrecci fra lo Stato e l´economia. Fu quando acquistò la Sme insieme ai Benetton. Che ricordo conserva?
«Fu un affare finanziario, concluso cinque anni dopo con la cessione ai francesi della Carrefour. Sia io che Benetton eravamo giunti alla conclusione che non volevamo dedicarci a un´attività in cui bisogna continuamente negoziare con i Comuni le licenze di costruzione degli ipermercati, i permessi per il cambio di uso dei terreni. Succedeva che per due, tre anni trattavamo con un Comune. Concedevamo tutto quello che chiedevano: costruzione di scuole, verde pubblico, servizi sociali. Tutto a posto, eppure alla fine la licenza ci veniva negata. E in seguito il terreno se lo prendevano le Coop. Noi non abbiamo mai voluto scendere sul terreno dei rapporti con la politica. Ma non si può rimanere immacolati nuotando in uno stagno torbido. Allora bisogna lasciare».

Lei si è salvato scegliendo dall´inizio un´orizzonte globale: su 5 miliardi di euro di fatturato solo il 4% delle vendite di Luxottica sono sul mercato italiano. Ma la sua scommessa regge di fronte alla Cina? Il Guangdong è il nuovo distretto mondiale degli occhiali, soppianta il Cadore. La Cina fabbrica 300 milioni di paia di occhiali all´anno.
«Infatti noi ci siamo già da dieci anni, prima come produttori poi anche come distributori. Abbiamo capito che l´Italia ci stava stretta all´inizio degli anni Settanta: siamo andati in America e dieci anni dopo realizzavamo là il 70% del fatturato. Dopo l´America, la Cina è la nostra nuova frontiera. L´espansione asiatica non va a scapito del made in Italy, al contrario. Negli ultimi dodici mesi abbiamo raddoppiato le fabbriche nel Guangdong e al tempo stesso abbiamo assunto altri mille dipendenti in Italia».

Davvero in Italia si può difendere nel lungo termine anche una vocazione manifatturiera, i mestieri della produzione?
«Noi siamo la prova che il made in Italy ha ancora un bel futuro davanti a sé. Nei prossimi anni avremo bisogno di aumentare sia la produzione in Italia, sia in Cina. Nel Guangdong fabbrichiamo gli occhiali che nei negozi si vendono sotto i cento euro. Ma in Italia continuiamo a produrre il 75% del totale, in Cina il 25%. La produzione di fascia alta e altissima deve restare in Italia. Io sono venuto qui a Pechino per inaugurare il nostro primo negozio LensCrafter, la rete vendita di maggior prestigio. Ho visto i numeri della nostra rete cinese: per il 95% qui vendiamo made in Italy. Il consumatore cinese vuole il meglio. Invece gli occhiali prodotti qui li mandiamo in America per coprire fasce di domanda diverse. Perciò le confermo che vedo un futuro per l´Italia anche nel mestiere industriale».

Come fa a essere sicuro che il made in Italy conserverà queste caratteristiche di maggiore qualità? Non rischiamo di scoprire un giorno che i cinesi, o altri, ci raggiungono anche nella fascia alta?
«Il primato dobbiamo meritarcelo ogni giorno, è una conquista costante fatta di perfezionismo, ossessione per la qualità, investimenti nella ricerca».

Perfino negli occhiali è importante la ricerca?
«Gli occhiali sembrano un oggetto semplice ma sono per il 50% estetica e per il 50% alta tecnologia. E´ un accessorio che teniamo sugli occhi anche 12 o 18 ore al giorno, perciò la calzabilità e la robustezza devono fare progressi continui. Noi da una parte investiamo nell´estetica di lusso con le licenze dei più grandi stilisti italiani e mondiali e con il nostro marchio Ray-Ban. Dall´altra lavoriamo in collaborazione con i Politecnici di Milano e Torino e con l´università di Padova nella ricerca sui materiali più sofisticati come le nuove plastiche. Per risolvere un problema annoso come quello della vitina che si allenta e rende la montatura meno stabile – l´antico tormento di tutti gli ottici – siamo andati fino in Giappone a inventare una soluzione a base di iniezioni di teflon».

Alle imprese italiane di dimensioni medio-piccole che vengono a scoprire la Cina qualche consiglio darebbe?
«Noi siamo venuti qui per fare investimenti di lungo periodo con lo stesso spirito con cui più di trent´anni fa sbarcavamo in America. Possiamo permetterci questo impegno anche per la nostra solidità: il modello aziendale Luxottica è il contrario di tutto quello che insegnano nelle Business School, ma con l´integrazione verticale che ci dà il controllo della rete distributiva noi ci sentiamo tranquilli e padroni del nostro destino. Agli altri devo dire di stare attenti perché più ci si allontana da casa più cresce la dimensione dei rischi, e in Cina si può anche inciampare».

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