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(WSI) – Il primo a fiutare il cambiamento del vento è stato Coppola. Da almeno un anno non mette più in cantiere alcuna iniziativa nelle periferie e nella cerchia intorno a Roma, dove è particolarmente presente. «Se i prezzi calano è stato questo il suo ragionamento le prime aree a essere colpite saranno proprio le periferie, dove le quotazioni hanno raggiunto livelli elevatissimi. Qualche limatura, se arriva lo sboom, potrà esserci anche nei quartieri centrali e semicentrali, ma qui i prezzi, per ragioni oggettive (non si possono costruire nuovi palazzi su queste aree), terranno». Come prima conseguenza di questa scelta, Coppola ha comprato per 70 milioni, una cifra giudicata eccessiva dal suo stesso entourage, l’albergo Cicerone nel quartiere Prati, proprio a ridosso del centro storico. «Già il giorno dopo qualcuno mi ha offerto 5 milioni in più e sono arrivate anche altre manifestazioni d’interesse, ma io non vendo».
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Ma certo Danilo Coppola non è il solo ad aver compreso che il boom immobiliare non può durare all’infinito. E ad aver aggiustato di conseguenza la strategia imprenditoriale. Né il cauto Franco Caltagirone, né il giovane Giuseppe Statuto, né il temerario Stefano Ricucci, nè il determinato Luigi Zunino se ne stanno con le mani in mano. Ma basterà adeguare la strategia imprenditoriale per uscire indenni dalla fine del boom? O molti di questi nuovi imprenditori immobiliari finiranno anche loro nella “trappola del cerino acceso” che stritolò nel ‘92‘93 vecchi e collaudati immobiliaristi come Salvatore Ligresti, Renato Bocchi, Renato Della Valle?
Tutti, a cominciare da loro, negano questa eventualità. «Le cose sono cambiate rispetto agli anni Novanta», dicono quasi all’unisono mentre forse incrociano le dita dietro la schiena. In effetti i vecchi immobiliaristi si trovavano, oltre che ad aver comprato a prezzi ormai altissimi (si pensi che soltanto nel 2003, undici anni dopo, i prezzi in termini reali hanno sorpassato il picco che ci fu nel 1992) di fronte a una fase critica dal punto di vista congiunturale, mentre i tassi schizzavano in alto a seguito anche della svalutazione della lira. Non si trovava più un compratore nemmeno a cercarlo con il lanternino, mentre il peso degli oneri finanziari cresceva insopportabilmente. Così gli immobiliaristi che erano rimasti con il cerino acceso si bruciarono. E i loro immobili andarono a ingrossare le sofferenze delle banche.
Già, le banche. Non corrono anche adesso dei pericoli? In fondo non sono state loro a finanziare a piene mani i nuovi immobiliaristi, a consentire loro diventare dei raider di Borsa acquistando consistenti pacchetti di titoli di Capitalia, Bnl, Mediobanca e Rcs (si veda il caso esemplare dei finanziamenti della Bpi a Ricucci)? Ma certo tutte le grandi banche hanno finanziato, a turno, le operazioni immobiliari dei nuovi imprenditori. La Deutsche Bank, ad esempio, ritirò soltanto all’ultimo momento il finanziamento a Ricucci che voleva mettere le mani sull’Ipi di Zunino, poi ceduta a Coppola. La stessa Deutsche avrebbe giocato un ruolo in molte altre situazioni.
Sono tutti prestiti garantiti, è vero, proprio dal mattone che vi sta dietro. Ma non dovrebbe essere piacevole per gli istituti di credito finire come nel ’92, con molte sofferenze in più in un rigo del bilancio e con molti immobili in più in un altro. Perché se anche le procedure di vendita all’asta si sono snellite rispetto al passato, ci vogliono sempre trequattro anni per riprendere i soldi sonanti.
Eppure proprio dalle banche vengono delle rassicurazioni. All’inizio degli anni Novanta la capacità di misurare la bontà del credito era molto ridotta. Oggi i parametri, anche sulla base degli accordi di Basilea 2, sono più affinati. Bastano alcuni numeri per rendersene conto: nel 1997 l’incidenza delle sofferenze nette rispetto al patrimonio di vigilanza era del 35 per cento, oggi è inferiore al 10. E le sofferenze nette sugli impieghi erano al 5,7 per cento contro l’1,72 per cento di oggi. Insomma, le banche sono adesso molto più patrimonializzate e hanno molti più strumenti di prima per il controllo delle sofferenze.
Forse, e buon per loro, le aziende bancarie corrono meno rischi che in passato, ma non per questo i nuovi immobiliaristi sono al sicuro da improvvisi cambiamenti di scenario, con prezzi in calo e difficoltà nel trovare nuovi compratori. Ma anche qui le notizie sono tranquillizzanti. I prezzi per ora sembrano sul punto di fermarsi. Certo, possono calare, ma di quanto: 510 per cento, come si ritiene probabile? In questo caso gli immobiliaristi, che hanno margini enormemente superiori, si limiterebbero a guadagnare di meno (vedi anche articolo a destra). Ci sarà invece un crollo dei prezzi? Tutto è possibile, ma anche nello sboom precedente, quello del ‘9395, la caduta in termini reali fu al massimo del 1520 per cento.
Per il settore degli uffici, inoltre, la crisi c’è già da tre anni, complici le difficoltà congiunturali dell’Italia. E quindi gli operatori stanno già convivendo con queste difficoltà, tanto che aspettano invece prima o poi una ripresa economica che rilanci questo segmento.«E comunque fa notare un operatore del settore oggi i maggiori investitori in Italia sono le banche d’affari e i fondi stranieri». Sono investitori istituzionali come Morgan Stanley, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Soros, J.P.Morgan, Heinz, Doughty Hanson, che hanno un orizzonte di mediolungo periodo e che sanno attendere. O sono società come Pirelli Re, che gestiscono asset per conto di Morgan Stanley e di altri.
Insomma, è pur possibile che qualche grosso nome possa saltare nei prossimi mesi o anni, ma in sostanza il settore sembra ben coperto e allineato. Negli anni Novanta e dal 2000 in poi una nuova economia immobiliare, basata sulla fusione fra mattone e finanza, si è imposta, attirando anche considerevoli risorse dagli investitori istituzionali esteri. Ad approfittare delle circostanze favorevoli sono stati soprattutto i nuovi immobiliaristi che sembrano (e qualche volta sono) sbucati dal nulla, ma che hanno avuto l’intelligenza di comprendere e assecondare il nuovo trend di mercato.
Da tutta la moltiplicazione della ricchezza, invece, sono invece rimasti fuori in questi anni i semplici costruttori. Non che le cose siano andate male per loro. «Ma dice Claudio De Albertis, presidente dell’Ance, l’associazione delle imprese di costruzione in questo settore si guadagna poco. Dove si guadagna davvero è nell’attività immobiliare». Tant’è vero che molte società di costruzione stanno cercando di trasformarsi anche in operatori immobiliari: a Milano lo stesso De Albertis ha creato un consorzio di 15 imprese per partecipare ai progetti di riqualificazione della città sul tipo di GaribaldiRepubblica e Porta Vittoria. «Se non ci diamo da fare, unendo le forze dice De Albertis noi costruttori corriamo il rischio di raccogliere solo le briciole da tutta l’attività di riqualificazione delle ex aree del Demanio e delle aree industriali dismesse. Mentre loro, gli immobiliaristi, dispongono di una leva finanziaria completamente diversa, a noi la banca dà un appoggio soltanto se abbiamo una certa consistenza patrimoniale. Di qui l’unione in consorzio».
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DI FRONTE ALLA PIU’ GRANDE BOLLA CHE SI SIA MAI VISTA AL MONDO
«È la più grande bolla immobiliare della storia». L’allarme L’Economist, il prestigioso settimanale inglese, lo ripete da almeno due anni. Paventando anche, se la bolla non si sgonfierà, uno scenario catastrofico, con conseguenze che si irradieranno dal comparto a tutta l’economia, innescando una recessione globale. «Mai i prezzi in termini reali sono cresciuti così tanto, così a lungo e in così tanti paesi», ha sentenziato il settimanale. Una vera globalizzazione della corsa dei prezzi, che va dalla Gran Bretagna alla Cina, dall’Australia alla Francia, dagli Stati Uniti alla Francia.
Secondo le stime dell’Economist, il valore totale degli immobili residenziali nei paesi sviluppati è cresciuto dai 30 trilioni di dollari a più di 70 trilioni negli ultimi cinque anni: un incremento che è equivalente notano gli esperti al 100 per cento dei Pil di tutti i paesi messi insieme. Non v’è traccia di nulla di simile nel passato, neppure in relazione alle grandi bolle dei mercati azionari, neppure negli anni 20. Da qui l’allarme, ripreso poi più volte sia dall’Ue che dal Fondo monetario. Soltanto il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, non aveva prestato fede a queste reiterate preoccupazioni. Ma alla fine dello scorso mese ha cambiato idea anche lui e ha lanciato l’allarme.
A guardare i dati c’è da rimanere stupefatti. Sembra che la ricchezza immobiliare sia stata toccata in questi ultimi otto anni, dal 1997 al primo semestre del 2005, da re Mida. Si è assistito a un’incredibile moltiplicazione dei valori. Il caso limite, secondo l’indice elaborato dall’Economist, è quello del Sud Africa, dove i prezzi sono cresciuti in questo lasso di tempo del 244 per cento. Ma anche i proprietari di case irlandesi, britannici e spagnoli possono gioire, con rincari rispettivamente del 192, del 154 per cento e del 145 per cento.
Un po’ più indietro troviamo l’Australia con il 114 per cento, e poi un gruppo di paesi, fra cui l’Italia: Francia con l’87 per cento, Stati Uniti con il 73, Svezia con l’84, Nuova Zelanda con il 66, Belgio con il 71 e il nostro paese con il 69. Uniche eccezioni la Germania, con un aumento pari a zero, e il Giappone, con un regresso pari al 28 per cento.
Non si ha un’esatta idea di cosa è accaduto se si guardano soltanto questi indici generali “per paese”. Perché questi sono aumenti medi, ma si sa che nei piccoli centri la dinamica dei prezzi è ovunque in Europa e nel mondo di gran lunga più tranquilla. La corsa è più accentuata nelle grandi metropoli dove il patrimonio abitativo non può espandersi con facilità, e anche se lo fa soprattutto in Europa ciò succede nelle aree più periferiche. Quindi dietro queste medie si nascondono in realtà, anche per un paese come l’Italia che ha avuto una dinamica non fra le più esasperate, raddoppi e anche triplicazioni di valore per gli immobili più prestigiosi dei centri storici delle principali città.
Più che una festa, un’orgia. Con la fallace impressione di aver trovato, con l’immobile, la pietra filosofale che trasforma in oro qualsiasi cosa. Ma le illusioni non possono andare avanti all’infinito, è questo il senso dell’avvertimento che ormai tutte le principali istituzioni del pianeta stanno dando. Sperando che la febbre diminuisca a poco a poco e che non ci sia il temuto collasso che potrebbe trascinare con sé l’intera economia mondiale.
Ma che cosa può accadere se alla fine scoppia la bolla, magari cominciando dagli Stati Uniti, dove i prezzi nel primo trimestre del 2005 sono saliti a un ritmo del 12,5 per cento? «Il boom spiega Marcello De Cecco, ordinario di Economia monetaria all’Università di Roma La Sapienza si può bloccare sia dalla parte della domanda, perché i redditi non seguono più i prezzi, sia dalla parte dell’offerta, perché aumentano i tassi d’interesse. Il punto è che gli Stati Uniti devono per forza aumentare i tassi per attrarre i capitali. Ma normalmente tengono questo processo sotto controllo, ed è difficile che i tassi possano loro sfuggire di mano. L’unico pericolo potrebbe essere uno shock esogeno oggi inimmaginabile, o la compresenza di due o tre spinte impreviste, che facciano salire i tassi in maniera incontrollabile».
Ma la recessione può arrivare anche per altre vie che non siano una forte ascesa dei tassi, anzi proprio mentre i tassi sono bassi. In questo caso i prezzi delle case comincerebbero a scendere. E negli Stati Uniti, con gli americani superindebitati con i mutui, le banche potrebbero chiedere ai clienti di rientrare di parte del prestito. Impossibilitati a farlo, molti venderebbero le case, con ulteriori effetti recessivi sui bilanci delle banche e sull’economia.
In questo caso, la recessione si allargherebbe a macchia d’olio in tutti i paesi occidentali, e a poco servirebbe ricordare che in Italia, secondo le statistiche, i prezzi sono aumentati meno che in altri paesi. Il diluvio, una volta iniziato altrove, arriverebbe anche nel Bel Paese.
Per fortuna uno scenario così catastrofico, sebbene possibile, è abbastanza improbabile. In Italia, ad esempio, nell’ultimo anno sono diminuite le compravendite e si è dilatato il tempo necessario a realizzare una compravendita. Un inequivocabile segnale che il boom sta finendo. C’è da sperare che questo accada anche negli altri paesi, e soprattutto negli Usa.
(a.bon.)
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