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(WSI) – Far parere abituale quanto non lo è eppure dura, e rende ovvio non preoccuparsene: è il miracolo riuscito da un decennio all’economia degli Stati Uniti. Tanto che neppure 726 miliardi di saldo negativo della bilancia mercantile sono ora considerati in sé preoccupanti. Visto che la Cina origina solo un quarto di questo disavanzo, la sua quota è immutata da fine anni ’90 e soprattutto seguita a comprare titoli degli Stati Uniti. Come del resto pure russi e arabi seguitano a riciclare petrodollari. E anche per la curva invertita dei rendimenti che lascia prevedere recessione, ci sono risposte sufficienti. Si potrebbe dedurne, ad esempio, che aiuta gli investimenti. E così via ogni volta a dire normale quanto non lo è: perché questa è stata la grande magia riuscita a Greenspan stampando dollari. Ogni volta far perdere il centro del ragionamento. Assuefarci all’idea che tutto sia ormai relativo, regolato dagli automatismi di una politica monetaria, di cui i più si sentono tra l’altro un po’esperti, tanto è banale, ovvia. Invece quanto sta accadendo è inquietante, e ha spiegazione non relativa, e inoltre evidente solo che ci si voglia guardare intorno.
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Il prezzo della ricchezza, siano case o titoli di Stato, è troppo cresciuto: dollari e yen stampati in questi due decenni sono divenuti una ricchezza che ovunque s’è sproporzionata ai redditi. Tant’è che circa un mese fa quando una legge sulle pensioni ha aggravato il crollo dei rendimenti sui titoli di Stato a lunga, Mervyn King il governatore della Bank of England ha spiegato che proprio questo era ormai il punto. Un eccesso di liquidità ha accresciuto i prezzi delle attività e diminuito gli interessi a lunga. In altri termini: non c’è reddito né da lavoro e neppure da interesse che si proporzioni ormai all’aumento dei patrimoni, del valore degli stocks.
Ed è vero ovunque e per chiunque. In media i cinesi stanno risparmiando il 45% dei loro redditi. Non credono che i comunisti provvederanno alla loro vecchiaia, impegnati come sono, del resto anche in Italia, a fare i soldi. E neppure si fidano delle loro banche, di nuovo con buon senso. E persino la banca centrale cinese del resto non trova di meglio che investire il suo eccesso di riserve, di ricchezza, in titoli di stato americani. E i giapponesi, pure loro, si sentono al sicuro col risparmio in quei titoli di Stato, come i ricchi, i russi e gli arabi. E’ insomma la propensity to hoard, all’accumulo, del mondo universo che seguita a invertire la curva dei tassi. E anche i baby boomers in Europa o negli Stati Uniti del resto intensificano l’accumulo di ricchezza, prima di andare in pensione. E i prezzi delle case confermano la stessa evidenza. Nell’ultimo anno la ricchezza reale netta è cresciuta negli Stati Uniti di 5 trilioni di dollari. Ovunque insomma l’indice dei prezzi dei patrimoni è ben superiore a quello dei prezzi al consumo.
La questione centrale, attorno a cui tutto il resto gira, non è insomma il doppio deficit americano o il successo cinese. E’ quanto possa ancora crescere la ricchezza, di quanto possa seguitare a sproporzionarsi rispetto ai redditi. Ed i problemi per le banche centrali s’originano tutti da questa bolla che può peggiorare oltre misura, senza che i prezzi al consumo infine inducano una stret ta della politica monetaria. Ecco quanto rende prevedibile una politica monetaria più severa per le banche centrali.
Il rischio è insomma che il novizio Bernanke debba far fronte lui alle follie di Greenspan, e a tutti i dollari e gli yen stampati in questi anni. E l’accelerazione o meno dei tassi in particolare potrebbe riferirsi al prezzo di due stock di patrimoni: oro e petrolio. Con uno stabile superamento della soglia dei 70 dollari al barile e di 600 dollari per oro, la sterzata dei tassi diviene non più evitabile. Insomma i cinesi lavorano per noi e deflazionano i prezzi dei manufatti, e la produttività dei computer pure.
Ma quest’impulso deflattivo potrebbe essere soverchiato prima o poi dalla bolla della ricchezza, di cui l’oro e il petrolio sono i primi indici. Peraltro la politica monetaria negli Stati Uniti ha un lag di 12-18 mesi e i tassi dei mutui ipotecari nei prossimi 6-12 mesi già inizieranno a aggiustarsi. Le famiglie americane hanno comprato insomma dei derivati e non lo sanno, mentre i prezzi delle case a copertura danno già segni di cedimento. E aumenta il senso di colpa dei banchieri centrali, che hanno preso a riferimenti della politica monetaria i prezzi al consumo e non quelli della ricchezza, come anche avrebbero dovuto.
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