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IL VAFFA DI ESSELUNGA

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(WSI) –
Premessa numero uno: per me Bernardo Caprotti è un mito. Numero due: non mi piace chi spara sulle coop per partito preso ideologico, perché sono le cooperative che hanno portato per mano milioni di italiani nel mercato, durante il ‘900, e li hanno familiarizzati con gli istituti basilari di una forma d’impresa che, pur “sociale” e tutelata in Costituzione, “impresa” resta: quando per milioni di socialisti e comunisti, ma anche molti cattolici, quel termine era un tabù.


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Premessa tre: le coop hanno pieno diritto di esistere e crescere, ma a patto di rispettare gli obblighi di mutualità ai quali sono vincolate, e naturalmente il mercato, cioè i concorrenti. Per questo le cannonate che il patron di Esselunga ha tirato ieri ad alzo zero contro le coop sono benvenute. Perché il Caprotti Bernardo della classe 1925, brianzolo doc figlio ed erede di tessitori e innamorato dei supermarket americani tanto da aprirne i primi in Italia 50 anni fa esatti, in società addirittura con Rockfeller, spara per amor di mercato, non di ideologia.

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Il libro “Falce e Carrello”, che il Caprotti ieri ha presentato a un’affollatissisma conferenza stampa come mai ne ha tenute nella vita, si legge d’un fiato. Nella prima parte perché non si capisce nulla del Caprotti uomo e dei suoi valori, se non ci si immerge nell’atmosfera che trasuda orgoglio e operosità che caratterizzava i primi anni 50, quelli dei De Gasperi, degli Sforza e degli Einaudi che sono tra i pochi politici che Caprotti cita col cappello in mano, capaci come sono stati di indurre gli italiani a tirarsi su le maniche e a ridarsi un posto nel mondo col lavoro e lo spirito d’intrapresa. Nella seconda perchè si ricostruiscono molte vicende, dalla Liguria all’Emilia Romagna alla Toscana, in cui l’espansione di Esselunga ad armi pari rispetto agli ipermercati Coop risulta osteggiata – nella ricostruzione e nella copia di documenti citati e pubblicati in calce al volume – di fatto e di diritto dal grande abbraccio tra partiti della sinistra che amministrano e vertici delle cooperative della grande distribuzione “rossa”, come comunemente si dice.

C’è poi l’introduzione di Geminello Alvi, l’impareggiabile studioso della moneta del tutto alieno dall’odiosità preconcetta verso l’ideale di fraternità economica insito nella forma proprietaria cooperativa, visto che è uno steineriano dichiarato e riconosciuto. A molti Alvi sembra “di destra” solo perchè è un anticollettivista in quanto individualista – ma la sua concezione economica è fondata sull’individuo cooperante, ve lo posso assicurare. E a maggior ragione dunque la sua introduzione è preziosa, perché semplicemente dà conforto di numeri e non di ideologia allo sbocco di bile che al Caprotti è venuto negli ultimi anni, poi vedremo il perché.

Vedete l’accusa essenziale mossa da Caprotti alle Coop non sta tanto nel fatto che la tassazione pesa sul loro utile lordo al 17%, rispetto al 43% di una società commerciale come Esselunga. Chiunque attacchi solo per questo mostra di essere un somaro, perché l’agevolazione fiscale è legittima e anche giusta, se poi però il fine mutualistico viene osservato. Non tutte le Coop infatti attuano la mutualità allo stesso modo. Nella Conad ad esempio i soci della cooperativa sono gli imprenditori che gestiscono i punti vendita, ma a quel punto la mutualità – che si identifica nel “ristorno” ai soci , cosa diversa dal profitto – deve identificare beni e servizi prodotti ai propri soci non secondo una logica di prezzi inferiori a quelli di mercato, bensì in una differenza complessiva, nel bilancio d’esercizio, tra prezzo pagato e costo effettivo.

Quando invece la vendita del bene o del servizio da parte di una cooperativa avviene a fronte di soci dipendenti o consumatori che dovrebbero “toccare con mano” la mutualità attraverso minori prezzi rispetto a quelli di mercato, come dovrebbe avvenire alla Coop, il problema che si pone è che tale mutualità probabilmente è negata e violata, quando i prezzi si dimostrino invece addirittura superiori a quelli del concorrente privato, e caratterizzati da una logica tanto più di cartello territoriale, quanto meno al concorrente privato viene consentita l’apertura di esercizi nell’area limitrofa. È questo, il punto di fondo sollevato da Alvi e Caprotti: le autorizzazioni mancate a Esselunga in Emilia, Toscana, Umbria e Romagna, sfociano in prezzi delle Coop ancor meno vantaggiosi per i consumatori locali, di fatto prigionieri di un cartello. Ed è questa, l’unica vera accusa che in nome del mercato bisogna ringraziare Caprotti di lanciare a testa bassa, offrendo casi e documenti concreti.

Per questo, e poiché noi non siamo di una forma cooperativa rispettosa della libera concorrenza, noi ci augureremmo che le Coop rispondessero con pacati argomenti su ogni singolo caso citato, invece di accusare Caprotti di demenza senile e di partigianeria politica. C’è poi una ragione di fondo che al ferrigno re italiano della grande distribuzione, che sin qui ha rifiutato di cedere lo scettro alle gigantesche catene estere che sono sbarcate anche in Italia come unica alternativa in grande stile alle Coop, ha fatto avvampare di rabbia. Ed è la rivoltante insistenza con la quale, da un po’ di annetti a questa parte, gufando esplicitamente la sua morte in assenza di eredi all’altezza, i vari Prodi e compagnia abbiano preso a dire che Esselunga doveva restare in mani italiane, cioè delle Coop stesse.

È la stessa tiritera che i banchieri vicini all’Ulivo hanno provato a intonare all’indomani del caso Parmalat, quanto digrignavano i denti in faccia al grande Enrico Bondi dicendo che la doveva piantare di chiedere danni alle banche che avevano finanziato Tanzi, e vendere Parmalat a Granarolo. È inviperito dagli avvoltoi, Caprotti, e anche per questo spara a zero. Volete dargli torto, quando alla sua età si resta così lucidi e tenaci combattenti del lavoro e del profitto? Quando ieri, ai giornalisti che insistendo sull’età gli chiedevano a chi cederà l’azienda, ha fatto notare che in fondo al coetaneo Capo dello Stato Giorgio Napolitano ancora fresco di nomina nessuno si permette di chiedere quando tirerà le cuoia, in Caprotti parlava la dignità di un combattente. Ma non della “roba” verghiana, di una proprietà avida di incamerare agi e benefici dall’esclusione altrui dei benefici prodotti.

L’anima del venditore anni Cinquanta che lo fece innamorare di un consumo aperto finalmente ai bassi redditi, fa di Caprotti un innamorato del benessere ai più, in nome di qualità certo ma soprattutto di prezzi accessibili, verificabili, e vantaggiosi perché sempre confrontabili a fronte di quelli della concorrenza nel negozio all’angolo. Ma quando il negozio all’angolo non c’è e sono tutti della Coop, e gli amici della Coop tifano perché crepi e molli tutto a loro lasciando cadere la sfida di una vita, ecco che Caprotti diventa mito. Un mito che merita risposte argomentate, però. Non insulti. Perché a pagare di più alla cassa siamo noi, non dimenticatevelo.

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