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IL TORO E’ STANCO: ATTENTI, RIBASSI IN VISTA

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(WSI) – Due anni fa un grande pessimismo opprimeva i mercati, anche perché la bolla tecnologica speculativa scoppiata nel 2000 si era ulteriormente avvitata sotto il peso specifico dell’attacco terroristico alle Twin Towers e ad altri siti sensibili. Il mercato americano segnò pertanto il maggiore profondo ribasso, pari al 49%, tenuto conto del parametro dei massimi sui minimi dal tempo della Grande Depressione del 1929.

In finale di pellicola tutto sembra essere stato rinormalizzato con un inusuale perverso strappone, tanto che in molti paesi gli indicatori di tendenza riemersero con inusitata violenza dai pericolosi baratri del 9 ottobre 2002. Ripensamenti primaverili hanno ripiombato molti listini verso lo sprofondo, ma in seguito lo slancio ha comunque consentito l’alleggerimento della contingente zavorra, consentendo una robusta vigorosa ripresa. I livelli attuali sono generalmente maggiori del 40% rispetto ai retracement del 2002 e, recentemente, tanto lo Oecd che la Adb hanno rilasciato ottimistiche previsioni.

Per nulla influenzato dalle opinioni degli autorevoli esperti, il “Toro” continua a brucare le erbette autunnali, non batte impaziente lo zoccolo anteriore sul terreno, visto che per altro manca un evidente fumo dalle frogie e purtroppo nessun altro segno fa presagire una sua prossima carica rabbiosa alla vista del nemico da abbattere.

Sam Stovall, capo delle strategie d’investimento di Standard & Poor, osserva che raramente il terzo consecutivo anno “bull” possa offrire emozioni violente alla normale utenza. Nei dieci rialzi succedutisi dalla fine della seconda guerra mondiale solo due volte questa statistica equazione ha conseguito più del 10% di profitto, mentre mediamente l’incremento reale è risultato modestamente dell’1% e per ben tre volte proprio nel terzo esercizio il “Toro” si é accasciato esausto dal troppo lavoro esperito sul terreno di gioco.

Ulteriore elemento di incertezza viene fornito dalla scadenza elettorale. I commentari di Wall Street sostengono che la rielezione di Bush, data ormai per scontata, potrebbe favorire le borse azionarie, laddove la sua eventuale sconfitta causerebbe spinte ribassiste. Ma la storia non ritiene di condividere questo contraddittorio sofisticato pensiero.

Fino dal 1945 il mercato si è platealmente manifestato al rialzo nel primo anno di incarico di sei sui sette presidenti democratici eletti, mentre risulta fortemente negativo paragonato al corso dei primi dodici mesi di esercizio dello studio ovale, rispetto a sei degli otto presidenti repubblicani.

Mediamente il conferimento del potere al partito democratico ha prodotto guadagni del 14,3% sull’indice Standard & Poor 500 e al contrario l’ascesa repubblicana gode invece di segnate contrazioni medie per circa il 2,4%. Quindi apparentemente i presidenti democratici sentono il dovere di convincere l’agone dei businessman, con il fine primario di stimolare l’economia nazionale come primo atto del loro mandato, quando i repubblicani di converso preferiscono affrontare subito gli accadimenti recessivi, per i quali immancabilmente accusano l’amministrazione avversaria che in genere li ha preceduti, avendo il naturale scopo di concludere se possibile con un fertile contesto economico di sostegno alla strenua conquista del secondo mandato. In effetti, l’unico presidente democratico succeduto ad un repubblicano che si trovò a gestire una delicata situazione congiunturale fu Woodrow Wilson nel 1913.

Quest’anno indubbiamente il risultato del voto negli Stati Uniti dipenderà dalla strategia geopolitica attuata in Iraq piuttosto che da considerazioni sui temi incandescenti di politica monetaria, tuttavia giova osservare attentamente George W. Bush, il quale perfettamente inserito nel solco della tradizione consolidata dell’avito partito, ha scommesso quasi tutto il proprio personale prestigio per essere il presidente sotto il cui mandato una recessione ereditata da presunti misfatti economici di origine democratica, si sia magicamente trasformata in un trend espansivo.

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