Società

IL TESORETTO
DELLA CEI

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*Paolo Pagliaro e’ il direttore dell’agenzia giornalistica 9Colonne. Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) –
Quest’anno, con la dichiarazione dei redditi, i contribuenti italiani si accingono a trasferire dalle casse dello Stato a quelle della Chiesa cattolica circa un miliardo di euro. A tanto ammonta – milione più, milione meno – il valore dell’8 per mille di pertinenza Cei calcolato sul totale del gettito Irpef. Cinque volte di più che nel 1990.

Si potrebbe pensare che la cattolicissima Italia abbia deciso di aderire plebiscitariamente all’invito a sottoscrivere che le viene rivolto, ogni anno a primavera, attraverso gli schermi tv, l’affissionistica e le inserzioni pubblicitarie della Conferenza episcopale. Ma in realtà non è così. I contribuenti che decidono di destinare a qualcuno 1’8 per mille (le opzioni possibili, comprendono, oltre allo Stato e alla Chiesa cattolica, la Chiesa Valdese, i luterani, le comunità ebraiche, gli avventisti e le Assemblee di Dio) non superano il 40 per cento e quelli che barrano la crocetta “chiesa cattolica” in calce alla dichiarazione dei redditi sono poco più del 30 per cento della popolazione. Il resto, cioè la stragrande maggioranza, decide di non scegliere. In apparenza. Perché in realtà sceglie, eccome.

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Il sistema dì ripartizione indicato dalla legge numero 222 del 1985 – effetto del nuovo Concordato firmato l’anno prima da Craxi e Casaroli – prevede infatti che anche la quota dell’8 per mille di chi non ha espresso una preferenza sia ripartita tra i soggetti concorrenti «in proporzione alle scelte espresse dagli altri contribuenti». I cittadini che non esprimono la loro scelta, non fanno per questo calare l’ammontare di risorse che viene suddiviso fra le sette destinazioni e che è sempre uguale all’8 per mille.

Dunque, esattamente come accade alle elezioni, chi vota decide anche per gli astenuti: e quindi il grosso va alla Cei, che ottiene un finanziamento quasi triplo rispetto ai consensi espliciti ottenuti a suo favore. Un gruppo di deputati radicali guidato da Maurizio Turco ha calcolato che se la ripartizione dei fondi pubblici avesse tenuto conto dei soli cittadini che avevano espresso una scelta, come parrebbe logico, nel 2006 lo Stato avrebbe potuto incassare (o risparmiare) 614 milioni di euro.

Più o meno quel che serve per finanziare decorosamente un anno di ricerca scientifica pubblica. La Chiesa non ne avrebbe peraltro sofferto più di tanto, visto che il meccanismo dell’8 per mille era nato principalmente per garantire il sostentamento del clero, impegno che nel 1990 assorbiva il 70 per cento degli introiti ma che nel 2005 è precipitato al 32 per cento (315 milioni su 984 incassati). Il resto viene utilizzato per gli scopi più diversi: dalle “esigenze di culto” (47,2 per cento) ai finanziamenti alla catechesi, dai tribunali ecclesiastici alla costruzione di nuove chiese, dalle manutenzione degli immobili agli aiuti al terzo mondo e alle opere di carità. Attività, queste ultime, che assorbono circa il 20 per cento del totale. Impostazione ben diversa da quella, ad esempio, della Tavola Valdese, che l’anno scorso ha finanziato oltre duecento progetti sociali, assistenziali e culturali confermando una scelta consolidata: nessun fondo dell’8 per mille è stato utilizzato per finalità di culto.

Già neI 2001 il professor Carlo Cardia, che oggi ha modificato il suo punto di vista ed è in prima linea contro il pericolo di «ritorsioni censorie da parte di certi settori laici», riassumeva così la situazione: «La Cei ha la disponibilità annua di diverse centinaia di miliardi per finalità (esigenze di culto della popolazione, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di Paesi del terzo mondo) che sono chiaramente “secondarie” rispetto a quella primaria del sostentamento del clero.

E, lievitando così il livello del flusso finanziario, si potrebbe presto giungere al paradosso per il quale è proprio il sostentamento del clero ad assumere il ruolo di finalità secondaria rispetto alle altre. Tutto ciò porterebbe a vere e proprie distorsioni nell’uso del denaro da parte della Chiesa cattolica e, più in generale, riaprirebbe il capitolo di un finanziamento pubblico irragionevole che potrebbe raggiungere la soglia della incostituzionalità se riferito al valore della laicità quale principio supremo dell’ordinamento».

In realtà il dubbio che il meccanismo messo in piedi potesse produrre effetti decisamente “irragionevoli” doveva essere sorto quasi subito, se è vero che nel 1992 si sentì il bisogno di istituire una commissione governativa “avente il compito di procedere alla revisione dell’importo deducibile ed alla valutazione del gettito della quota Irpef al fine di predisporre eventuali modifiche”. Rinnovata nel 2004, la commissione (composta da Francesco Margiotta Broglio, Carlo Cardia, Paolo Pugliesi e Anna Cardini) scade il prossimo 30 novembre.

Nelle interrogazioni presentate la scorsa settimana alla Camera, Maurizio Turco e i suoi colleghi Beltrandi, Capezzone e D’Elia chiedono al governo che fine abbia fatto la commissione, cosa abbia prodotto, «se esistano i verbali dei lavori, se siano pubblici o, in caso contrario, «se siano accessibili almeno ai deputati ovvero a chi siano riservati».

Ma c’è un’altra domanda a cui la pattuglia della Rosa nel pugno vorrebbe si desse risposta: perché lo Stato «rinuncia sistematicamente» a pubblicizzare l’utilizzo dei fondi dell’8 per mille ad esso destinati e soprattutto perché non organizza una campagna «che incentivi i contribuenti ad esprimere le loro scelte a favore dello Stato, in costanza di propaganda da parte degli altri soggetti concorrenti?».

Non è un caso che la percentuale dei cittadini che firmano per lo Stato sia passata dal 23 per cento del 1990 all’8,3 dell’anno scorso. Questo silenzio, scrivono i deputati, «rappresenta un palese danno economico al bilancio dello Stato e favorisce un abnorme arricchimento degli altri soggetti». Le soluzioni possibili, concludono Turco e gli altri, sono due: rideterminare l’aliquota Irpef in una misura inferiore all’8 per mille oppure limitare la ripartizione alle somme indicate dai soli cittadini che hanno espresso una scelta. Sono proposte elementari e soprattutto ragionevoli, considerati anche gli altri benefici fiscali – ultimo quello relativo all’Ici – e i finanziamenti diretti di cui gode il sistema ecclesiastico. Ma tra tutti i “tesoretti” di cui si discute in questi giorni, quello della Cei sembra l’unico davvero ben custodito.

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