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IL ROSSO E IL NERO: LA STRIZZATA

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*Alessandro Fugnoli e’ strategist di Abaxbank

(WSI) – In un anno (in particolare gli ultimi mesi) in cui trader e gestori (e gestiti) si lamentano del fatto che non succede niente, le materie prime continuano ad essere un’oasi di volatilità. Il rame per consegna dicembre ha perso in due sedute il 12 per cento che aveva accumulato nelle 13 sedute precedenti e ha trascinato con sè tutti i non ferrosi e, per qualche ora, perfino il greggio.

C’è di tutto in questo ribasso. C’è una decelerazione della crescita dell’edilizia cinese, che è la principale utilizzatrice del metallo. C’è una scrollata di posizioni speculative aperte da hedge fund. Ma c’è anche, molto probabilmente, un intervento diretto cinese, un fatto sempre più frequente.

Chi si cimenta sulle materie prime, se non vuole essere un perfetto dilettante allo sbaraglio, deve sapere che sta in barca con l’elefante cinese su un numero crescente di metalli e derrate agricole. L’elefante è tanto più ingombrante in quanto agisce come stato e non solo come insieme di operatori privati.

L’elefante, inoltre, ha bassa tolleranza per i moscerini che gli si affollano intorno e ama punirli severamente, a volte con lente torture e altre volte con mazzate improvvise. Una lenta tortura viene inflitta da 13 mesi ai cinesi della diaspora e ai trader occidentali che già da prima del G-7 di Dubai del settembre 2003 hanno puntato su una rivalutazione del renminbi per poi trovarsi con una valuta che viene mangiata da un’inflazione del 5 per cento e offre tassi d’interesse a breve e a lungo più bassi di quelli americani (che è tutto dire).

Mazzate vengono invece inferte a moscerini e mosconi sulle materie prime, aspettando che si accumulino posizioni abnormi per potere fare più male, il massimo del male, nel contropiede. Sarà sempre di più così, anche perché per soia, cotone e metalli la borsa merci di Shanghai sta diventando la borsa mondiale di riferimento. Per il rame, per esempio, l’open interest su dicembre è di 102mila lotti per Shanghai contro i 78mila del Comex.

Moscerini e mosconi devono quindi imparare a dosare le loro posizioni in modo da potere sopportare rovesci da 12 per cento in un giorno in caduta libera, senza pietosi limit-down (come se il T-Bond scendesse da 112 a 99 o il dollaro da 1.22 a 1.07 in sei ore). Devono poi preferire le scadenze lunghe (che sono a sconto e sono meno volatili) e soprattutto devono credere in quello che fanno.

Per i veri credenti nel bull market secolare azionario degli anni Ottanta e Novanta il crash del 1987 è stato solo uno sgradevole intervallo. Per i veri credenti nel bull market secolare delle materie prime, che è appena al terzo anno di vita, le prove da superare saranno anche più severe. Per il petrolio, in particolare, una correzione è già matura e più passa il tempo maggiore sarà. Bisogna però riflettere molto a lungo e molto seriamente sul fatto che nel 2003 è stato speso per la ricerca di nuovi giacimenti di petrolio il doppio del valore di quello che si è trovato.

Certo, non è così tutti gli anni, di solito si è più fortunati e a volte si fa il colpo grosso che compensa di mesi e mesi di frustrazioni, però c’è da pensare. Provando ora a dare un’occhiata al quadro generale, le borse e le valute che si muovono nevroticamente e velocemente un giorno in una direzione e il giorno dopo in quella opposta (restando alla fine in una fascia d’oscillazione stretta) riflettono bene una situazione macro molto contrastata. Si consuma e si investe, ma si assume poco e si deve assorbire un rincaro delle materie prime che, nonostante il ribasso di oggi, è molto pesante.

Il fatto che si assuma poco non è poi così negativo (se non per Bush e per chi resta disoccupato) perchè significa che la decelerazione della produttività rimane contenuta. Si ricorderà l’anno scorso, quando i dati mensili sull’occupazione erano modesti. Il mercato azionario mostrava ogni volta grande disappunto, salvo ricredersi quando arrivavano gli utili, che erano meglio del previsto proprio perchè le imprese avevano assunto poco.

Oggi è probabilmente lo stesso, ma i vantaggi sul costo del lavoro sono neutralizzati dal rincaro di materie prime e semilavorati. Se il contesto rimane contrastato, la Fed potrebbe considerare terminato, con un ultimo ritocco il 10 novembre, il primo ciclo di rialzo dei tassi. Altri ne verranno, se tutto va secondo programma, ma dopo avere lasciato respirare per qualche mese l’economia. Analogamente la Bce sarà tentata di aspettare ancora, prima di iniziare a stringere.

Sarebbe uno scenario positivo per i bond. Il loro bear market tante volte annunciato (anche da noi) sarebbe ulteriormente rinviato. Non per questo, tuttavia, ci sarebbe spazio per un rialzo. I corsi sono già alti e l’inflazione food and energy avrà presto un’impennata in cui si combineranno sgradevolmente, negli Stati Uniti, gli effetti devastanti sull’agricoltura di due mesi di uragani e quelli del petrolio a 50 dollari.
Sulle valute, infine, tutto dipende dalla Cina. Finché sta ferma, anche il Giappone ha la scusa per non toccare lo yen. E finché il Giappone sta fermo, anche Eurolandia non rivaluta. La Cina, però, gioca al gatto con il topo (probabilmente d’accordo con gli Stati Uniti) con tutti noi.

Una settimana fa ha firmato un documento congiunto con il Tesoro americano in cui dichiara di volere procedere di buon passo verso la liberalizzazione del cambio e oggi dichiara che ci vorranno anni e anni. Una cosa è certa (e ben tre discorsi di esponenti della Fed vanno in questa direzione). Potrà essere questa notte o potrà essere fra tre anni, ma il giorno in cui il renminbi diventerà adulto sarà bene non avere dollari.