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IL ROSSO E IL NERO: I COSTRUTTORI

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(WSI) – In questa fase di sbandamento conviene fare il punto partendo da un riassunto delle puntate precedenti. Tra fine 2002 e inizio 2003 viene preparato e approvato un grandioso piano di ricostruzione e ribilanciamento dell’economia mondiale. Il piano prevede una divisione dei compiti in base alla quale gli Stati Uniti rilanciano la domanda e svalutano, l’Asia spinge investimenti, produzione e consumi e compra dollari mentre l’Europa rivaluta. Il presupposto è che le risorse inutilizzate nel mondo sono talmente ampie da permettere un rilancio della domanda per 2003, 2004 e 2005 senza che ci sia da preoccuparsi dell’inflazione se non, forse, nel 2006.

Il progetto è solido e ben studiato. La costruzione parte rapida nella primavera 2003 e non manca di destare nei mercati finanziari una composta meraviglia. Tutti fanno la loro parte. A volte perfino con eccessivo entusiasmo, come nel caso dei consumatori americani e in quello degli imprenditori cinesi.

Tra il febbraio e il marzo 2004, completate le fondamenta, si entra finalmente, con qualche ritardo rispetto ai tempi previsti, nella seconda fase del progetto. Questa seconda fase prevede che le imprese smettano di tagliare i costi e di restituire i debiti e inizino invece ad assumere, a investire in nuovi impianti e a ricostituire scorte. Nella fisiologia dei cicli economici questa è la fase in cui i margini iniziano a scendere, ma in cui in compenso la produzione continua a crescere.

Nel progetto dei costruttori è previsto che sia questo il momento in cui gli Stati Uniti iniziano a normalizzare i tassi, la Cina combatte gli eccessi di propensione all’investimento e l’Europa rilancia la domanda interna. La parola d’ordine della seconda fase è “sostenibilità”, la durata prevista è, come minimo, fino a tutto il 2005. In tutti i progetti, anche i più accurati, insorgono però problemi in corso d’opera.

In questo caso se ne sono presentati due. Il primo è che si sono calcolati male i comportamenti di spesa delle imprese. Normalmente le imprese hanno nel codice genetico una tendenza compulsiva a ingrandirsi e a sopravvalutare le possibilità di sbocco per i loro prodotti. Appena possono, quindi, assumono, investono, si indebitano e acquisiscono fino a che non creano un eccesso di offerta su cui interviene la scure della selezione naturale, che elimina i più deboli e mantiene in vita i più forti.

Ora succede che questo è ancora vero in Cina, ma non è più tanto vero negli Stati Uniti, dove il dimezzamento dei profiti totali seguito allo scoppio della bolla (che ha un precedente solo negli anni Trenta) ha lasciato una ferita psicologica più profonda di quanto non si fosse creduto anche in un momento, come l’attuale, in cui i profitti sono a un nuovo massimo storico. L’allentamento dei freni inibitori della spesa è così durato solo tre mesi per le assunzioni, quattro per le scorte e non c’è mai stato in misura rilevante per gli investimenti.

Non parliamo nemmeno della propensione a riprendere a indebitarsi. Questo soprassalto di morigeratezza ha benefiche conseguenze per la produttività (come abbiamo visto nel dato di ieri) e per i margini di profitto, ma sul piano macro comporta ovviamente una decelerazione dell’espansione (pur prolungandone la durata potenziale).

Il secondo errore di calcolo dei progettisti è stato di concentrare l’analisi dei vincoli sul fattore lavoro, trascurando tutti gli altri. Un po’ come fare solo l’analisi statica di un edificio e non calcolare vento, terremoti o variazioni di calore perchè considerati praticamente irrilevanti. Il risultato è che, come previsto, non abbiamo inflazione salariale (il lavoro è infatti abbondante), ma ci troviamo con un notevole numero di colli di bottiglia.

Di solito si pensa che il petrolio sia l’unico collo di bottiglia. In realtà in questo momento ci sono anche le raffinerie (che sarebbero comunque troppo poche anche se il petrolio fosse abbondante e a buon mercato). Poi ci sono le centrali elettriche (che sarebbero comunque troppo poche anche se le raffinerie fossero adeguate). Poi le reti di distribuzione dell’energia (che sarebbero comunque insufficienti anche se se le centrali elettriche producessero in abbondanza).

Poi l’acqua, che nella metallurgia è spesso necessaria in quantità immense e comincia invece a essere scarsa in Cina. Poi i minerali, come si è visto nel caso dell’acciaio. Poi, sempre in Cina, i trasporti. Porti, ferrovie e strade sono stressati all’inverosimile. Le catene, si dice, sono tanto forti quanto il loro anello più debole. Lo stesso vale per il ciclo produttivo, che può andare alla velocità della sua componente più arretrata.

Il mondo ha dunque bisogno di un’enorme quantità di investimenti in una fase in cui le imprese private hanno paura di lanciarsi. La Russia produce meno petrolio di quello che potrebbe dare al mondo perchè i petrolieri privatizzati esitano (comprensibilmente, dopo mesi di Yukos) a investire. Proprio la rinazionalizzazione del settore, tuttavia, pur tanto temuta dai mercati finanziari, potrebbe dare slancio alla ricerca. Già molto si sta facendo per affrontare i colli di bottiglia. La Cina aumenterà la capacità delle sue raffinerie del 50 per cento in quattro anni.

Il greggio a 45 dollari comincia a fare saltare fuori nuovi pozzi dappertutto. La capacità produttiva irachena è aumentata silenziosamente a 2 milioni di barili e continua a crescere. Il nucleare torna a crescere in tutta l’Asia. L’offerta di non ferrosi è cresciuta in modo considerevole e i progetti di nuove miniere e di nuovi impianti sono incoraggianti. Quanto ai trasporti cinesi, un sano e pragmatico dirigismo del governo sta riorientando risorse da settori in sovracapacità a porti, strade e ferrovie.

A fronte di un notevole fervore in Asia e in America Latina, poco si sta facendo, in Europa e negli Stati Uniti, per affrontare i colli di bottiglia. In America tutto è bloccato dalle elezioni, mentre in Europa le iniziative sull’energia sono disperse in mille rivoli e mancano di visione. Il greggio a 50 o 60 dollari sbloccherà tuttavia molte cose e avrà alla fine, purchè ci si arrivi lentamente, un effetto benefico. Meglio svegliarsi oggi (o fra poco) a 60 dollari che restare a dormire altri cinque anni a 30 dollari e svegliarsi all’improvviso a 120.

I progettisti sono ora al lavoro per includere la scarsa propensione a investire e i colli di bottiglia nei loro calcoli. Ora i progettisti sono solo due (la Fed e la dirigenza cinese), dal momento che l’Amministrazione è in campagna elettorale e l’Europa sta a guardare. Tra Fed e Cina c’è comunque grande concordanza d’intenti. L’espansione va difesa con forza e il modo migliore, al momento, è di accettare una modesta riduzione di velocità.

In attesa di mettere a punto, verso fine anno, una nuova strategia più aggiornata, Fed e Cina mandano intanto il messaggio politico che il progetto va avanti e non è in discussione. La Fed fa sfoggio di ottimismo della volontà e mantiene fermo il suo programma sui tassi almeno fino al 2 per cento. Nel frattempo lascia che i bond, con la loro esuberanza, mantengano su un plateau l’edilizia e tutti i settori sensibili ai tassi. La Cina, dal canto suo, ribadisce che il 7 per cento è il suo obiettivo di crescita e si appresta a raggiungerlo.

Il quadro presenta indubbiamente delle ombre, ma non è necessariamente deprimente. Le banche sono solide (un po’ meno in Cina, ma la situazione è ben nota e sotto controllo), le imprese hanno risanato i bilanci. Un’eventuale pausa di 6 mesi nell’espansione per andare a cercare altro petrolio e costruire qualche raffineria non dovrebbe produrre effetti viziosi a catena. Le borse non sono care e le politiche monetarie sono equilibrate. Geopolitica a parte, al momento non è il caso di fasciarsi la testa.

*Alessandro Fugnoli e’ strategist di Abaxbank