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IL RICICLAGGIO CHE FA BENE

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*Ranieri Razzante, oltre ad essere docente di Legislazione Antiriciclaggio all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, è presidente di AIRA, l’Associazione Italiana dei Responsabili Antiriciclaggio. AIRA è un’associazione indipendente, non politica e senza fini di lucro. Il suo compito è quello di diffondere la cultura della lotta al riciclaggio di denaro sporco. Maggiori informazioni su: www.airant.it. Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – L’ordinamento giuridico italiano prevede un meccanismo di riassorbimento dei beni, mobili o immobili, appartenuti a determinati soggetti di cui ne sono spossessati a seguito di giudizio. Ci riferiamo al meccanismo della confisca: essa mira a sottrarre il bene posseduto per metterlo a disposizione unica dello stato, che ne destinerà nuove funzioni. Secondo il codice penale vigente, la confisca consiste nell’espropriazione ad opera dello Stato delle cose che servirono o furono destinate a commettere reati, ovvero ne rappresentino il frutto o il prodotto (art. 240 CP).

Ad esso è associata la pericolosità del bene stesso, come strumento fungibile alla commissione di ulteriori reati da parte dei medesimi soggetti o altri ad essi legati. Dunque la confisca è una misura di sicurezza patrimoniale da tenere distinta sia dall’espropriazione per pubblica utilità sia dal sequestro. Quest’ultimo rappresenta anch’esso un provvedimento giudiziale che sottrae al possessore la disponibilità di un bene. Seppur accumunati dal carattere coercitivo, i due istituti presentano profili di differenziazione profonda dovuti, volendo cercare una definizione semplicistica, al carattere permanente o meno del provvedimento. La confisca è infatti un procedimento definitivo, non soggetto a revoca, che mira dunque ad una sottrazione definitiva della cosa confiscata.

Il legislatore italiano ha sentito, ad un certo punto (e precisamente agli inizi degli anni ’80), l’esigenza di studiare un sistema che potesse colpire in particolar modo gli interessi della mafia a mantenere intatti i propri patrimoni costituiti illecitamente. Da qui, nel 1982 venne introdotta la Legge Rognoni – La Torre, che porta il nome rispettivamente dell’allora Ministro dell’Interno e del giurista Pio La Torre che per primo lavorò alla progettazione di una legge di questo genere. Pio La Torre, è bene ricordare, pagò con la vita questa scelta, cadendo per mano della mafia a Palermo nel 1982 prima che la legge entrasse in vigore. Successivamente nel 1996, in pieno clima di lotta alla mafia, furono introdotte delle modifiche riassunte nella legge 109, richiesta a gran voce da un’iniziativa popolare lanciata da Libera l’associazione presieduta da Don Ciotti con la raccolta di oltre un milione di firme. La legge in questione prevedeva la destinazione a finalità istituzionali o sociali dei beni mafiosi confiscati. Ciò al fine innanzitutto di riaffermare l’autorità dello Stato restituendo alla comunità locale i beni sottratti illecitamente, attraverso la promozione di iniziative valevoli socialmente. Tutto questo si sostanzia nell’assegnazione dei beni sottratti alle autorità locali (comuni, province, regioni, associazioni, cooperative sociali, comunità di recupero, centri per rifugiati). Il tutto al fine di riutilizzare con scopi socialmente utili tutti questi beni.

Ci sentiamo di definire questo meccanismo una sorta di riciclaggio dei beni, perché proprio in questo modo si reimmette nel circuito legale beni e sostanze appartenute alla criminalità organizzata e derivati come frutto di attività illecite. Un riciclaggio dagli effetti benefici però, perché consente di sfruttare a fini sociali i beni sottratti, come sorta di rivalsa dello stato e della comunità tutta sulle mafie. Per capire l’importanza strategica di questo strumento è forse opportuno fornire qualche numero. Negli ultimi dodici anni sono stati destinati beni per un valore complessivo di 725 milioni di euro; 8.933 beni immobili confiscati; 1.185 aziende appartenenti alla criminalità organizzata confiscate. Le sostanze ottenute dalla dismissione degli stessi confluiscono nel cd. “Fondo Unico di Giustizia” che destina i proventi alle attività gestite dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Giustizia.

Un modello tutto sommato funzionale, al punto che è stato proposto come modello base per un modello strutturato su base europea da adottare in tutta la Comunità per un’azione coordinata di lotta alla criminalità. Attualmente è al vaglio delle Camere la revisione della summenzionata disciplina con modifiche sostanziali del metodo di controllo. In particolare, il disegno di legge approvato dal Senato ed in attesa di discussione alla Camera dei Deputati prevede una drastica riduzione dei tempi entro i quali i beni immobili debbano trovare collocazione. Tali beni, secondo questa nuova impostazione, di cui non sia possibile effettuare la destinazione entro 90 giorni dalla proposta dell’Agenzia del demanio, possono essere venduti all’asta per velocizzarne la liquidazione (i termini potranno protrarsi fino a 180 giorni in casi tassativamente indicati dalla norma). Ciò ha creato un generale allarme tra quanti hanno da sempre sostenuto il sistema attuale ed in particolare di quanti se ne erano fatti promotori. L’allarme lanciato si sintetizza nel pericolo immediato di un generale disinnesco della legge 109. E’ dimostrato infatti che materialmente è molto difficile, se non impossibile, adoperarsi secondo i tempi dettati per la destinazione a fini sociali dei beni, con conseguenza diretta che non si avrà più o quasi destinazione sociale di quanto confiscato. Ma ciò che desta maggior allarme è l’opportunità fornita indirettamente alle mafie di poter riacquistare i beni sequestrati.

Infatti, se da un lato le mafie sono state da sempre “infastidite” dalla confisca come dimostrano le informazioni carpite dalle trattative tra mafia e stato (vere o presunte tali) nelle quali si chiede a gran voce proprio l’abolizione della legge Rognoni – La Torre, dall’altro le mafie hanno dimostrato che l’unico problema che non hanno è la disponibilità di liquidi. Troppo facile sarebbe riacquistare i propri beni battuti all’asta sfruttando “teste di legno”, prestanome, intermediari, società fittizie. Ciò che il legislatore non ha ancora chiarito è quali saranno i sistemi di controllo da adottare per impedire un rischio di questo genere. Un rischio troppo grosso da correre. Vero è che il sistema, così come attualmente configurato, mostra di per sé enormi ostacoli. I dati forniti dal Ministero dimostrano che, se da una parte l’azione dello stato sta producendo grandi risultati nella lotta alla mafia, i migliori possiamo dire degli ultimi dieci anni, dall’altra parte mostrano molte difficoltà nel procedere alla destinazione dei beni confiscati. Problemi legati a procedure (ipoteche, ricorsi, occupazioni) e carenze di risorse per la destinazione e trasformazione dei beni.

Ad oggi, sempre secondo quanto affermato dal Ministero dell’Interno in relazioni periodiche, degli 8.933 beni immobili confiscati dal 1982, 5.407 hanno trovato una destinazione sociale. Ne rimangono 3.213 in attesa di collocazione. A questi si riferisce la legge. Secondo il Ministro Maroni le dovute valutazioni saranno fatte dal Prefetto che qualora ravvisasse un qualsiasi pericolo interromperà la vendita, mentre i proventi ricavati saranno ripartiti equamente tra i due ministeri citati. «La complessità della gestione di questo immenso patrimonio di oltre 6 miliardi di euro – riferisce il Ministro Maroni – richiede una riflessione sugli strumenti consigliati per poterlo gestire».

«Si prenderanno tutte le opportune, adeguate cautele e precauzioni perché né direttamente, né indirettamente per interposta persona tornino nel patrimonio della mafia». I dati portati dal Ministro indicano infatti che, negli ultimi 18 mesi, sono stati arrestati 21 dei 30 latitanti più pericolosi, «un risultato superiore del cento per cento – ha sottolineato – rispetto ai 19 mesi precedenti; sono stati inoltre arrestati 299 latitanti (+83%), confiscati 2.942 beni per un valore di 1,8 miliardi di euro (+328%), mentre i beni sequestrati, ha concluso, sono stati oltre 11 mila, per un valore di 6,2 miliardi di euro (+71%)».

Ad oggi in effetti è difficile dire se il sistema così strutturato può funzionare efficacemente. Elemento che ha fatto fare le dovute riflessioni anche al governo che sta prendendo in considerazione l’idea di istituire un’apposita Agenzia per la gestione dei beni confiscati alla mafia, sostitutiva del commissario straordinario cui saranno devoluti compiti specifici a questo riguardo. Non ci resta che attendere l’esito della valutazione della Camera e degli eventuali emendamenti per comprendere davvero l’efficacia dei nuovi strumenti, sperando che si possa dissipare al più presto questa zona d’ombra che ad oggi copre molti interrogativi rimasti senza risposta.

Ci piace terminare con una frase di Don Ciotti che nella diatriba scaturita in questi giorni ha sapientemente riportato alla luce una vecchia proposta per allargare le maglie della legge 109 piuttosto che restringerle. Si riferisce ad una norma inserita nella finanziaria “quella del 2006 [che] prevedeva il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati ai corrotti. Una norma di cui se ne sono perse le tracce da oltre tre anni”.

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