*presidente di Fondazione per la Sussidiarietà.
(WSI) – Perché l’odierno dibattito sul declino
economico italiano e sulle soluzioni
necessarie per uscirne non si riduca a
una sterile contrapposizione di analisi più
o meno “illuminate”, occorre cominciare a
lavorare da subito su alcune emergenze attorno
alle quali è necessario costruire un
ampio consenso politico.
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La prima emergenza è, senza dubbio,
quella rappresentata dalle rendite, principali
nemiche del nuovo sviluppo. Oggi, esistono
“sacche” di rendita che costituiscono
vere e proprie intercapedini tra il pubblico
e la gente, le imprese, la società e che, nei
momenti cruciali per la vita del paese, cercano
di condizionare i governi per non perdere
i propri privilegi, arrivando magari ad
appellarsi a una falsa idea di bene comune.
L’elenco, purtroppo, è sterminato. Anzitutto,
per un paese che voglia risollevarsi, la
prima e principale rendita da combattere è
quella rappresentata da quelle grandi imprese
che – da anni non più autosufficienti –
vivono di finanziamenti bancari e pubblici,
ma sono ormai del tutto prive di una funzione
propulsiva per la nostra economia.
Purtroppo accade che, invece di favorire
una loro reale ristrutturazione (o la cessione
a stranieri capaci di rilanciarle) si richiamano
associazioni, giornali e istituzioni al loro capezzale,
impedendo così all’Italia di “cambiare
pelle” utilizzando più efficacemente le
risorse ancora disponibili per aiutare le piccole
e medie imprese a crescere in dimensione
e competitività. Perché, allora, si invocano le leggi di mercato come fattore di sanità e
progresso economico per poi continuare a
perseguire questa politica di assistenzialismo
e dirigismo statalista?
Allo stesso modo, è diventata
di grande ostacolo per lo sviluppo la
rendita degli speculatori che passano con disinvoltura
da un tavolo all’altro “raccogliendo
quattrini” senza abbozzare un – pur minimo
– piano industriale o accumulano ricchezze
di cui non si sa bene l’origine, così come
ha giustamente dichiarato Francesco
Rutelli al Corriere della Sera. Anche in questo
caso, come si può invocare il mercato
quale sano arbitro delle contese e poi consentire
che la rendita finanziaria sia tassata al
12.7%, mentre chi deve dirigere un’industria
oltre a dover reggere una concorrenza agguerritissima
(che ormai ha assunto proporzioni
mondiali) deve versare all’erario più
della metà dei suoi ricavi?
E, ancora, sul
fronte bancario, perché si decide (secondo
criteri oscuri, o fin troppo chiari) che le fondazioni
di origine bancaria che possiedono
una partecipazione sono da considerare
azionisti di “serie B” o si ritiene arbitrariamente
che le banche popolari sono più
“malsane” di altre forme giuridiche, benché
producano utile e abbiano meccanismi di
governance trasparenti? E come non ricordare
la privatizzazione delle imprese statali e
la falsa liberalizzazione dei servizi di pubblica
utilità, che ha fatto nascere oligopoli e monopoli
di poche grandi famiglie prive di interesse
per il consumatore, vessato dalla bassa
qualità dei servizi e da prezzi fuori mercato?
Un discorso analogo va fatto rispetto alla
necessità di una redistribuzione che sia
“simmetrica” allo sviluppo. Che dire, infatti,
della rendita di cui godono certi patronati; di
un uso assistenziale di certi ammortizzatori
sociali; di certe leggi rivolte alle società cooperative
atte a mantenere privilegi ingiustificati
dalle leggi del mercato; di
certa opposizione alla riforma
Moratti guidata da chi vuole detenere
il monopolio della formazione
degli insegnanti, riducendoli
a impiegati dequalificati
o da chi teme che l’attuazione
del doppio canale della formazione
professionale metta in
crisi un sistema costituito da
molti carrozzoni pubblici e privati; dell’opposizione
alla riforma della sussidiarietà fiscale,
già annunciata dall’ex ministro Giulio
Tremonti e bloccata da chi, in entrambi
gli schieramenti, difende l’apparato statale
nel suo assetto più clientelare (secondo
l’Ottavo censimento industria e servizi
2005 realizzato dell’Istat risulta che in Italia
ci sono circa 15 mila istituzioni pubbliche!).
La verità è che predomina il deleterio sistema
dei trasferimenti a pioggia, con l’unico
assurdo risultato di arrivare addirittura ad
aumentare la disuguaglianza (+4,3%) in termini
di trasferimenti dallo Stato alle famiglie.
Il limite dell’attuale bipolarismo è che,
per assicurarsi il voto dei piccoli e grandi
gruppi corporativi, parti significative della
maggioranza e – ancor di più – dell’attuale
opposizione, non hanno interesse a sviluppare
una politica che investa nelle eccellenze;
nel capitale umano; nell’aiuto selettivo a piccole
e medie imprese che assumono, investono
ed esportano; in un sistema di welfare
mix che incentivi la qualità.
Da questo punto di vista, la contesa elettorale
dell’anno prossimo rischia
di ridursi a un teatrino se – pur
vincendo l’uno o l’altro – continuerà
a prevalere una sorta di
blocco conservatore, di partito
della rendita che difende interessi
costituiti e privilegi che non sono
fondati sulle dinamiche reali
della vita del paese, opponendosi
a una sussidiarietà che favorisca
le eccellenze come fattore di sviluppo
per tutti. La lotta alla rendita è il primo
grande obiettivo politico bipartisan di
questo momento: chi saprà farsene interprete
anche a costo di rischiare (nell’immediato)
a livello elettorale?
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