Società

IL PRESIDENTE INFALLIBILE

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(WSI) –
Condannato a continuare la recita della guerra vittoriosa in Iraq, mentre il loggione gli grida la realtà di un fallimento tragico, il presidente «che non cambia mai idea» si contorce fra la necessità di cambiare rotta e il terrore di ammetterlo e di condannare il proprio partito alla disfatta, il prossimo 7 novembre. E cerca di nascondere la propria incertezza dietro i generali.

In una Washington dove i parlamentari dell´opposizione democratica ormai prendono le misure per le nuove tende degli uffici in Parlamento nei quali si illudono di traslocare in massa, la Casa Bianca tenta di combattere il disfattismo, o il realismo, che si sono impadroniti dell´opinione pubblica, dei media e dei politicanti, con vertici e riunioni affannose di generali radunati a consulto attorno al capezzale del malato. E decidere che cosa sarà più nocivo ai proprio interessi elettorale, se riconoscere la verità o insistere nella recita.

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Quello «State of Denial», come lo definisce il titolo del libro di Bob Woodward, quella condizione psicologica del paziente che nega la propria malattia, si sta screpolando.
Lo stesso Bush, senza avere il coraggio morale e politico di ammetterlo, vacilla. La sua allusione a questo ottobre di sangue come a una sorta di «offensiva del Tet», ha costretto i suoi inservienti a negare che il presidente avesse finalmente ammesso che l´Iraq del 2006 comincia a somigliare un po´ troppo al Vietnam del 1968.

Ma poiché Bush non può abbandonare quella mistica della coerenza, sulla quale ha costruito la propria fortuna, né può insistere lungo una rotta che somiglia alla navigazione del Titanic, la soluzione è scaricare sui militari.

Ieri mattina alla Casa Bianca c´erano ad attenderlo di ritorno dalla passeggiatina di salute in bicicletta, tutte le stelle dell´apparato militare, Pace, il capo di Stato maggiore, Abizaid, il comandante supremo del «teatro bellico» in Medio Oriente, Casey, collegato in videoconferenza dal suo bunker di Bagdad e, per tenere tutti in riga, naturalmene Rumsfeld e il tutore del presidente, il vice Dick Cheney. Uno show organizzato per poter dire che ogni mutamento di rotta sarà stato deciso non perché Bush abbia sbagliato, essendo questo presidente in «missione da Dio» per definizione infallibile, ma perché i suoi soldati, i suoi generali, lo hanno chiesto.

Il cambio di rotta avverrà. La questione è sapere come e quando. Vedere se la svolta si tradurrà in quella tripartizione del paese tra curdi, sunniti e sciiti che molti vedono come sola uscita dalla guerra civile in atto. Se comporterà invece un colpo di stato morbido, eliminando l´impotente premier al-Maliki sostituito con un uomo forte, ripetendo un altro «classico del Vietnam», l´eliminazione dell´inviso Diem nel 1963, rimpiazzato da una marionetta di Washington. E se la sterzata verrà annunciata prima o dopo il 7 novembre, data della elezioni di medio termine e del possibile castigo elettorale.

I candidati del partito di Bush invocano un segnale di forte «discontinuità», si direbbe nel politichese italiano, perché l´Iraq è la macina da mulino che li potrebbe trascinare sul fondo. Il «cervello di Bush», Karl Rove, lo esorta a tener duro e a rinviare tutto a dopo, convinto che, tra alluvione di spot tv, mobilitazione di elettori fedeli e qualche sapiente massaggio dei risultati nei collegi in bilico, i repubblicani scamperanno al pericolo.

Ma su tutto incombe la figura del vecchio avvocato di famiglia, di quel James Baker che fu uomo di Reagan e di papà George, oltre che pilota delle operazione per far vincere il giovane George in Florida. Baker, cinico e professionale, sta preparando la grande revisione della strategia Iraq e la nuova edizione del celebre «proclamare vittoria e andarsene». «Anche la Seconda Guerra Mondiale fu lunga, difficile e piena di rovesci» ha piagnucolato ier l´altro Rumsfeld. Vero. Ma la Seconda Guerra Mondiale durò 44 mesi, per gli Stati Uniti. La guerra in Iraq va avanti ormai da 41 mesi, e non ci sono gloriosi V-Day, Victory Day, visibili alla fine del tunnel.

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