(WSI) – America ed Europa, anche se non vanno d’accordo, sono due signore importanti al centro della scena mondiale. Nel cuore europeo c’è un nocciolo duro, l’area dell’euro, il club monetario intorno al quale, quattro anni dopo il debutto, è nato un club commerciale che non ne condivide le regole ma gode di molti privilegi: grazie alla partecipazione ad un’area di libero commercio, al centro di un continente ad alto reddito procapite e nel quale abbondano tecnologie ed occasioni per produrre e per vendere prodotti finiti ai paesi confinanti. Al bordo est del nocciolo duro c’è la Germania.
Il Bollettino Economico (n. 62, Ottobre 2010) della Banca d’Italia ne racconta la storia economica recente da pagina 11 a pagina 14. Nel 1989 cadeva il muro di Berlino. “L’economia tedesca sta cogliendo i benefici dell’azione di ammodernamento e internazionalizzazione del sistema produttivo avviata dalla metà degli anni novanta e delle riforme strutturali volte ad accrescere l’efficienza del mercato del lavoro e a contenere il carico fiscale della sicurezza sociale” scrive la Banca d’Italia. Ma questi benefici sono l’effetto dell’unificazione monetaria europea e dei vantaggi che l’euro ha offerto alla Germania, che diffidava della nuova moneta. Il medesimo paese aveva anche chiuso, nel giro di un decennio, il dualismo tra la malridotta economia sovietizzata dell’est e la robusta economia dell’ovest.
L’euro nasce, sulla carta e nel gennaio 1999, ad un cambio di 1,18 con il dollaro ed il 26 ottobre del 2000 quota 0,825: la stampa ironizza sul paradosso di una quota novanta, come segnale di debolezza e non certo di forza del cambio, come la lira di Mussolini. Ma il 15 luglio del 2008 quota 1,59 sul dollaro mentre la Confindustria tedesca dichiara di sentirsi competitiva nel mondo anche con un cambio pari ad una volta e mezzo il biglietto verde. Dichiarazione coperta e non avventata, come sono spesso i tedeschi: perché sorretta dalla tecnologia, dei mezzi di produzione e della organizzazione delle risorse umane, di cui dispongono ma anche del fatto che, grazie alla nuova moneta, avevano legato le mani a tutti i paesi europei.
Non si poteva più svalutare per competere con la Germania e nella Germania. E la Germania poteva vendere a prezzi, denominati nella stessa moneta, in tutti i paesi europei. Poi viene la prima crisi globale della finanza mondiale. Ma la Germania rimane comunque l’unico paese esportatore netto dell’Europa e dall’Europa verso il resto del mondo: tigri asiatiche e BRIC compresi. E marcia, dopo la crisi, a ritmi del 4% annuo mentre il resto dell’area euro rimarrà sotto il 2%.
La Germania cattura quote del crescente commercio mondiale grazie alla capacità delle sue imprese di affermarsi: perché, anche grazie all’euro, ha aumentato la propria capacità di competere. Dopo la crisi gli Stati Uniti adottano politiche, monetarie e fiscali, espansive. La Germania impone all’Europa politiche deflattive. Le spine che feriscono il suo cuore europeo sono tre. I debiti pubblici dei paesi latini che la circondano nel club monetario. Le banche, di Spagna ed Irlanda, che sono state contagiate dalle cattive pratiche americane: la lebbra che ha distrutto Lehman Brothers. E l’Euro, che quota “solo” 1,35 sul dollaro: più di quando era stato emesso! Dunque non è debole, è ancora forte. Anche se non come nel luglio del 2008.
La Germania non vuole pagare per banche e bilanci pubblici disastrati dei paesi latini – la stessa Francia sembra ridimensionata a questa categoria, fragile per tradizione mediterranea – ma deve la sua forza recente ed i margini di competitività sull’estero proprio a quei paesi, che hanno accettato l’euro forte sul dollaro. E se deflaziona le loro economie, con un rigido monetarismo fiscale, dimentica che la fragile domanda interna, conseguenza della deflazione che essa richiede, sarà anche un freno alle vendite di auto tedesche in Italia, tanto per dirne una.
Inoltre, agisce sempre con ritardo, e con un occhio alla politica tedesca e non al suo rango internazionale: ma questo è un vizio della Merkel e non dell’industria tedesca. Che ripete anche che il debito pubblico non debba essere servito al nominale, alla scadenza – che è cosa diversa dalla fluttuazione nei corsi nel durante della vita dei titoli emessi dai Governi europei – indebolendo la valuta in cui quei titoli sono denominati: l’euro. Nel senso che ne mina al credibilità prospettica, generando illazioni improbabili sulla scomparsa dell’euro o sulla nascita di un euro a due teste: una debole per i deboli e l’altra forte per i forti.
Senza capire che l’euro, visto che non è una moneta nazionale, mancando la feluca e la spada allo stato europeo che ne dovrebbe garantire il contenuto – mentre il segretario del tesoro americano lo garantisce firmando i biglietti verdi – finisce per essere la moneta della Germania. Anche se lo Stato tedesco ne prende le distanze, relegandolo a moneta di servizio per il club dell’Europa latina. Ma dove la Merkel pensa di relegare i disoccupati europei frutto della deflazione?
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Massimo Lo Cicero è un economista che vive tra Napoli e Roma, ed insegna nelle Università di Tor Vergata e de La Sapienza. Si occupa di politica economica, crescita e conoscenza, mercati ed intermediari finanziari. Partecipa al Comitato Scientifico de La rivista economica del Mezzogiorno, edita da Il Mulino, per La Svimez, ed al comitato di redazione de L’Acropoli, una rivista edita da Rubbettino e diretta da Giuseppe Galasso. Scrive commenti ed editoriali per Economia Italiana, Il Mattino e la Rai, ma anche su molte altre riviste e siti web on line.
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