A Nassiriya, in fondo al cratere di una bomba micidiale, è morta l’illusione di un’Italia protetta dal terrorismo grazie a uno scudo misterioso. Il miracolo di Beirut, ai tempi della missione Angioni, non si è ripetuto. Non è bastata ai nostri soldati la cordialità verso la popolazione, non sono serviti i sorrisi, l’assenza di ogni arroganza, le armi leggere, le piccole attenzioni proprie di un certo stile, le medicine distribuite, il garbo verso i bambini e l’amicizia verso qualche ras locale.
È stato inutile che i nostri coraggiosi Carabinieri stabilissero la loro guarnigione a ridosso del centro urbano, anziché in qualche remota località: quasi a voler riprodurre la tranquilla serenità di una stazione dell’Arma in un paese italiano. Gesti nobili e generosi, in sintonia con lo spirito di chi era andato in Iraq per portare pace e sicurezza, non certo per inseguire modelli tardo-coloniali.
Ma il terrorismo non fa sconti e insegue logiche devastanti. Più viene da lontano, cellula assassina estranea al territorio e al suo tessuto civile, più colpisce con spietata indifferenza. I bambini iracheni dilaniati dalla stessa bomba che ha spezzato la vita di diciotto italiani sono un monumento all’indegnità morale del fondamentalismo. Restiamo sgomenti di fronte all’enormità del delitto, ma non sorpresi. Stupiti, semmai, che in Europa ci sia qualcuno (pochi, in verità) che rifiuta ancora di vedere la vocazione criminale dei fondamentalisti e la minaccia rivolta al mondo arabo moderato prima ancora che all’Occidente.
Diciotto vite: dodici Carabinieri, quattro soldati dell’Esercito, due civili. Militari d’Italia, volontari di una missione di pace di cui non ignoravano i rischi, spesso veterani di operazioni analoghe in Kosovo e altrove. Eroi moderni di un Paese che, purtroppo, oggi ha bisogno dell’eroismo di questi uomini semplici e determinati. Uomini che hanno speso il loro coraggio in Iraq al servizio di un’idea non facilmente definibile di patria, un’idea che non è quella dei loro nonni e neanche dei loro padri. È una patria intesa come adesione a una comunità sovranazionale di valori sui quali incombe la pressione del terrorismo.
Non è sempre facile riconoscerla e accettarla, questa comunità che va dagli Stati Uniti a Israele passando per l’Europa; e che abbraccia o dovrebbe abbracciare tanti Paesi derelitti, soffocati da satrapi simili a Saddam Hussein. L’Italia oggi s’inchina di fronte alle diciotto vite recise in Iraq, consapevole che la loro missione di pace è parte di una lotta più ampia alle forme di intolleranza violenta e destabilizzante.
Le parole del presidente Ciampi, sulla scaletta dell’aereo che lo portava a Washington nell’ora del lutto, hanno colto perfettamente il punto di fondo. Solo rafforzando, e non indebolendo i legami dell’Italia con i suoi alleati, si possono influenzare scelte che riguardano tutti, frenare l’America nei suoi errori e nei suoi fallimenti (che sono tanti), contare di più sulla scena internazionale. Cambiare quello che c’è da cambiare nella strategia generale. Coinvolgere le Nazioni Unite, trasferire appena possibile il potere a Bagdad a un governo indigeno. Non sappiamo se sarà sufficiente. Ma il dopoguerra iracheno di Bush si è trasformato in ciò che vediamo: un’altra guerra. Dovremo imparare a chiamarla con il suo nome.
I caduti di Nassiriya hanno dato la loro vita anche per questo e l’Italia non potrà dimenticare il loro sacrificio. Ieri il Parlamento ha scritto una pagina di grande dignità. Senza confondere i ruoli, la maggioranza e gran parte dell’opposizione hanno manifestato unite il loro dolore e la loro solidarietà alle forze armate. Soprattutto hanno escluso che il terrorismo possa spuntarla. Il ritiro delle truppe, oggi, sull’onda dell’offensiva di Nassiriya, equivarrebbe alla vittoria dei terroristi e di coloro che mirano a rimettere Saddam sul suo trono. E’ impensabile. Lo è per il governo e per buona parte del centro-sinistra.
L’Italia vive la sua tragedia. Mai così tanti caduti militari in una singola occasione dalla fine della Seconda guerra mondiale. E’ superato persino l’orrore di Kindu, i tredici aviatori massacrati in Congo l’11 novembre del ’61. Ma il Paese ieri ha dato il meglio di sé. Ha risposto con sobrietà e compostezza. E la maturità politica con cui il Parlamento ha reagito rappresenta un segno positivo di buon auspicio.
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