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(WSI) – 2003-2006, LA GRANDE CORSA DELLE BORSE. Tre anni di rialzo continuo sui mercati non hanno indotto Kenneth Fisher a coltivare eccessivi timori dell’avvicinarsi di una svolta negativa. Nel 2000 si dichiarò nettamente pessimista sull’azionario. Poco dopo si scatenò la mattanza del Nasdaq e dei titoli tecnologici. Due anni dopo ebbe l’intuizione di ribaltare completamente le proprie posizioni, anticipando di un pelo il minimo che si sarebbe formato nei successivi 12 mesi. Quanto basta per iscrivere di diritto Fisher nella ristretta elite dei migliori operatori finanziari del mondo.
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Alla luce di questi successi, non sorprende leggere il resoconto secondo cui la massa amministrata del suo fondo – Fisher Investment Management – è lievitata di un multiplo pari a 4, raggiungendo l’iperbolica cifra di 24 miliardi di dollari. Ci sono tutti gli elementi per prendere molto sul serio le sue indicazioni di investimento positive per il 2006, specie sui titoli energetici.
Che aspettative ha per il futuro?
Resto ottimista – spiega il manager – Le azioni passano di mano a prezzi appetibili, soprattutto se confrontati con le cedole del reddito fisso. Un differenziale che esercita un incentivo irresistibile al riacquisto di azioni proprie e favorisce una vera e propria corsa alle fusioni e incorporazioni. Personalmente ho posizioni di ampio respiro. Di sicuro non mi preparo a liquidarle domani mattina.
Mr. Fisher, negli ultimi anni si è notata una leadership di mercato molto netta: ad esempio, le azioni a bassa e media capitalizzazione hanno torreggiato rispetto ai pesi massimi di Wall Street. I titoli di sostanza, cosiddetti value, si sono avvantaggiati rispetto a quelli growth, cioè ad elevato potenziale. E ancora, le azioni allacciate al petrolio e alle materie prime hanno spiccato il volo. A suo giudizio, conviene insistere su questi temi oppure è meglio cambiare cavallo?
Non vedo ragioni per una svolta radicale. Le tendenze sono definite e con ogni probabilità persisteranno nel 2006. Il mio portafoglio è composto principalmente di società dell’energia e delle materie prime che possono trarre beneficio dalla modernizzazione dell’Oriente e dal boom internazionale. Poi da imprese industriali e dei beni capitali che seguono il ciclo economico mondiale. E infine da banche d’affari, molto screditate presso il pubblico degli investitori e perciò deprezzate. Al contrario siamo in seconda fila sui titoli legati al consumo e su quelli tecnologici.
Le piazze del Vecchio Continente hanno battuto ampiamente la Borsa newyorchese. Sarà così pure nel 2006?
Questo non sono in grado di dirlo. Ma una cosa so per certo: l’Europa è più conveniente dell’America sulla base dei fondamentali. Non mi fraintenda, le azioni si possono comprare sia al di qua che al di là dell’Atlantico. Solo che da voi costano meno.
Ma i settori da tenere d’occhio sono gli stessi o no?
Direi che sono i medesimi per entrambe le sponde dell’Atlantico.
Uno dei tratti che sta dando l’impronta allo slancio in avanti del mercato azionario è la febbre da fusioni e acquisizioni. Perché tanta voglia di fare acquisti?
Perché il costo del denaro è basso. Quando lei acquista un’azienda quotata, qui negli Stati Uniti, in media ottiene un flusso di utili del 6 per cento. Siccome il denaro costa diciamo un 3-4 per cento, il conto è presto fatto: è assai vantaggioso assorbire l’azienda barattando il denaro se l’azienda acquisita ha un buon flusso di cassa.
Lei delinea uno scenario nel quale gli assorbimenti fanno da ala alle quotazioni. In quali comparti il fenomeno può esercitare il peso maggiore?
Ovviamente le società di minore dimensione sono le prede ideali per una scalata. Forse le imprese con una capitalizzazione fra 500 milioni e 20 miliardi di dollari rientrano nella mia descrizione di candidato ideale. Al di là di questo, bisogna guardare caso per caso. Ritengo però che talune caratteristiche diano una mano: ad esempio, la riconoscibilità del marchio, la forte presenza territoriale o il dominio di una fetta di mercato. Ecco i plus da tenere d’occhio.
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