Come due eserciti schierati l’uno dinnanzi all’altro sulla linea di confine, così erano disposti in Consiglio dei ministri. Ed era scritto che prima o poi sarebbe partito un colpo di pistola, era scontato che si sarebbe verificato un incidente alla frontiera. E’ stata la discussione sul decreto per il prestito-ponte all’Alitalia a innescare lo scontro, sebbene ieri qualsiasi tema avrebbe incendiato la riunione dell’esecutivo.
Però nessuno avrebbe immaginato un faccia a faccia così teso tra il premier e il suo vice, nessuno avrebbe mai potuto prevedere che il diverbio si trasformasse in un incidente diplomatico e degenerasse al punto da indurre Fini, e dietro lui i suoi ministri, ad alzarsi dal tavolo e a lasciare il salone delle riunioni.
In quel momento si è aperta la crisi di governo, ed è vero che l’immediato gesto conciliatorio di Berlusconi, unito all’opera di mediazione di Gianni Letta, ha ricondotto la delegazione di An al suo posto e scongiurato che l’evento si compisse. Tuttavia è ormai chiara la crisi politica che attraversa il Polo, e che è aggravata da una profonda crisi nei rapporti personali tra i maggiorenti della coalizione.
Per un Follini che saluta il Cavaliere e se ne va a Strasburgo, c’è un Fini che a muso duro avvisa Berlusconi che «se così stanno le cose, il governo non c’è più». Tutto è iniziato dopo l’intervento di Tremonti su Alitalia. E’ stato allora che il capo della destra ha chiesto la parola per caldeggiare l’approvazione del decreto. Ma non si è fermato lì.
«…Ne approfitto per dire al ministro dell’Economia che in vista del vertice Ecofin è necessario trovare un accordo sul Dpef, perché io non darò il mio assenso a nulla, tantomeno al varo del decreto taglia-spese, se non avremo nel frattempo stabilito i contenuti del Documento di programmazione. Spero di esser stato chiaro». Era stato chiaro, ma era altrettanto chiaro che Fini volesse rincarare la dose. E infatti: «O ci mettiamo prima d’accordo, o An non voterà nulla», ha concluso volgendo lo sguardo verso Berlusconi.
Un gesto eloquente, quasi di sfida. Un modo per ribadire al premier ciò che gli aveva detto la scorsa settimana, quando il suo interlocutore lo congedò assicurando che avrebbe risolto tutto, «mi servono solo alcune ore». Da allora non c’è stato più alcun contatto, solo un messaggio: «Riparliamone dopo i ballottaggi».
Chiamato direttamente in causa, il Cavaliere ha tentato di rassicurare l’alleato. Il fatto è che il vicepremier non aveva intenzione di farsi rassicurare, perché dal suo punto di vista gli era bastata la figuraccia cui si era esposto con la più lunga verifica della storia repubblicana. Perciò non si è trattenuto, non l’ha voluto fare, quando ha sentito quel vocabolo, «verifica», pronunciato da Berlusconi: «Ti prego, evita di usare quella parola». «Ma voi l’avete usata per mesi e mesi», si è riscaldato il premier. «Se fossi stato di parola non sarebbe servito», ha ribattuto gelidamente il suo vice. Raccontano che a quel punto il capo del governo non ci abbia visto: «Non è vero. Io ho tenuto fede ai patti. Sei tu che volevi sempre di più».
Così è esploso il colpo di pistola, e tutti hanno avvertito lo sparo mentre nel salone calava un drammatico silenzio, rotto solo dal rumore della sedia spostata di scatto dal vice premier: «Un Consiglio dei ministri non può proseguire senza il premier, ma può andare avanti anche senza il vicepremier». E’ stato un attimo. Vedendo Fini in piedi, gli altri esponenti di An l’hanno imitato, ripiegando in fretta i documenti nelle borse per non rimanere indietro. Per un istante Berlusconi ha osservato incredulo gli alleati. Poi si è alzato, ha preso Fini per la mano, mentre Letta si adoperava per aiutarlo. Insieme al presidente del Consiglio e al suo sottosegretario, altri ministri sono intervenuti. Non Tremonti, e nemmeno i rappresentanti del Carroccio. Almeno così dicono quanti hanno assistito alla scena.
Così si è sfiorata la crisi di governo, sebbene Fini abbia accettato di rimanere, sebbene la riunione sia proseguita senza più scossoni, con il premier che da quel momento si è estraniato dal dibattito per tentare di ricomporre lo strappo con il suo vice: «Vedrai, Gianfranco, vedrai che l’accordo lo troveremo». La crisi non c’è stata e forse non ci sarà, ma la crisi è in atto se il leader del secondo partito della coalizione arriva a dire in quel salone di Palazzo Chigi che «il governo non c’è più». Il Cavaliere è convinto di rimettere le cose a posto «dopo i ballottaggi». Ma domenica, quei ballottaggi potrebbero provocare un altro terremoto, se la provincia di Milano andasse persa.
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