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IL FINANCIAL TIMES VA MALE (E FORSE E’ IN VENDITA)

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Tre o quattro anni fa, sarebbe stato difficile trovare un business leader nel mondo anglosassone più apprezzato di Marjorie Scardino. Dal 1997, quando ne è stata nominata Ceo, aveva modernizzato il prestigioso ma troppo generico gruppo Pearson, per concentrarsi sull’editoria cartacea, dalle testate Financial Times ed Economist alle case editrici, quali la Penguin, la Simon & Schuster e la Dorling Kindersley, passando per Pearson Education, il gigante nel settore accademico negli Stati Uniti.

Messe insieme, rendono la Pearson la più grande casa editrice del mondo. Via alcuni gioielli di famiglia quali Madame Tussauds, molti «theme parks», la porcellaneria Royal Doulton, la merchant bank Lazards e la Thames Television, «per formare un insieme di imprese che creassero un totale molto più grande della somma delle parti».

Come nessun altro editore tradizionale al mondo, la Pearson della Scardino si lanciò sulle dot.com con una politica precisa e aggressiva, tipica di questa avvocata texana 56enne. Non più il vecchio “pink ‘un”, quotidiano venerato ma troppo stuffy del vecchio establishment della City, l’Ft è diventato un vibrante portavoce dei valori neolaburisti business friendly e alla moda, cosmopolita e più eurofilo che mai.

Il modo di muoversi nel mondo intrecciato degli affari e della politica del navigatissimo presidente della Pearson, Dennis Stevenson, (diventato prestissimo Lord grazie all’amico Tony), ha garantito al premier una linea editoriale da house organ. All’apice della bolla delle dot.com, le azioni del gruppo sono schizzate a 23 sterline, i profitti del FT a 81milioni di sterline: e ben presto la Scardino è diventata la nobilissima Dame Marjorie.

Ma oggi, il Financial Times è in grande difficoltà, e la Pearson non sta tanto bene. Il grande dramma è la perdita della pubblicità dell’Ft, la peggiore in 30 anni: meno 23 per cento. E dopo anni di costante espansione, le copie vendute in Inghilterra sono scese da 200mila a 155mila. In più un’emorragia di 300 giornalisti, (i migliori, compreso il nuovo direttore Robert Thompson del Times), con quelli che rimangono obbligati a risparmiare: niente taxi, viaggi esteri o pranzi di lavoro, persino la cancelleria d’ufficio acquistata a titolo personale. Dopo un taglio draconiano delle spese globali del 25 per cento, le perdite del giornale si sono limitate a 6 milioni di sterline.

Ora le azioni valgono solo 5,16 sterline e gira parecchio a Londra la voce che l’Ft sarebbe in vendita. «Giammai» dice la Scardino, ma si nota che già esiste un accordo congiunto con il temuto WSJ (i cui padroni alla Dow Jones, non nascondono l’ambizione di comprarlo) per stampare le edizioni europee. E nonostante le pesanti perdite pre-tax del gruppo Pearson (436 milioni di sterline nel 2001, 25 milioni nel 2002), la Scardino ha appena speso 10 milioni di sterline per rilanciare “the pink ‘un”, nuova veste grafica, nuova rivista del weekend, diretta da John Lloyd (columnist del Riformista).

Da due anni al timone, Andrew Gowers non dimostra la saggezza magistrale dell’ex direttore Richard Lambert (anch’egli passato al Times di Murdoch come columnist), e molte aziende si lamentano per il nuovo taglio, troppo aggressivo per il classico newspaper of record. Il resto del FT Group (Les Echoes francese, Recoletos spagnolo, Vedemosti russo) va benino. Come il beniamino della texana, FT.com, che dopo una spesa negli ultimi anni di 200 milioni di sterline, ora ha raggiunto il break-even, grazie ai 45mila abbonati.

L’FT rimane l’anello debole della Pearson, fa troppa gola ad altri. Molti ne prevedono la sua prossima vendita, insieme all’uscita di scena dell’indomabile Dame Marjorie.

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