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IL DRAMMA DELL’ OCCUPAZIONE

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* Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana.

(WSI) – La scarsa prolificità di nuovi posti di lavoro di questa ripresa e la corsa a delocalizzare nei paesi a bassi salari (che interessa ora, oltre all’industria, anche i servizi) stanno diventando temi centrali del dibattito politico anche in Europa.

Dopo le iniziative di importanti gruppi tedeschi (Siemens, DaimlerChrysler, Bosch, ecc.) che, usando la minaccia di uno spostamento delle loro aziende nei paesi dell’ex-Europa dell’Est, hanno ottenuto l’aumento dell’orario settimanale di lavoro da 35 a 40 ore senza compensazione salariale, sono ora scesi in campo i governi.

Germania e Francia hanno infatti chiesto nell’ultima riunione dell’Ecofin un intervento per limitare le facilitazioni fiscali offerte dai paesi appena entrati nell’Unione Europea. Berlino e Parigi hanno sostenuto che è inammissibile che il contribuente francese e tedesco paghi Bruxelles per erogare fondi di aiuto allo sviluppo a questi paesi, quando questi ultimi usano la leva della concorrenza fiscale per sottrarre posti di lavoro in Francia e in Germania. Quindi, l’ultimatum di Berlino e di Parigi è stato: o si limitano queste agevolazioni fiscali oppure si tagliano gli aiuti comunitari.

Questa proposta è stata respinta, ma in cambio è stato deciso di creare un’unica base fiscale per tutti i paesi dell’Unione (ossia è stato deciso di arrivare a criteri unici di tassazione delle imprese). Il ministro dell’economia francese Nicolas Sarkozy, preso atto della prevista sconfitta incassata a livello europeo, non è rimasto con le mani in mano e ha deciso di iscrivere nel bilancio statale dell’anno prossimo 3 miliardi di euro per frenare il flusso delle delocalizzazioni, per cercare di fare tornare in patria alcune produzioni (grazie a un sistema di premi costituito da esoneri di imposte e alleggerimento dei contributi sociali) e soprattutto per cercare di stimolare competitività e capacità di innovazione dell’industria francese nella convinzione che un sistema produttivo a più elevato valore aggiunto sia meno esposto alla concorrenza dei paesi a bassi salari.

L’iniziativa della nuova «stella» del firmamento politico transalpino, già artefice di un innovativo accordo con la grande distribuzione e con l’industria alimentare per un’immediata riduzione media dei prezzi del 2%, merita alcune considerazioni. Innanzitutto, l’insufficiente creazione di nuovi posti di lavoro di questa ripresa non può più essere disgiunta dal fenomeno della globalizzazione e del trasferimento di intere produzioni verso i paesi a bassi salari.

Infatti, l’economia francese sta crescendo: sia nel primo sia nel secondo trimestre di quest’anno si è espansa dello 0,8% rispetto al trimestre precedente (durante quest’ultima primavera è dunque cresciuta più dell’economia americana). Quindi, non sta vivendo una fase di gravi difficoltà come quella tedesca, eppure la situazione del mercato del lavoro stenta a migliorare.

Il fenomeno è simile a quello che si sta verificando negli Stati Uniti, dove, facendo un confronto con le riprese precedenti, mancano all’appello di questa ripresa, oramai in corso da tre anni, più di 6 milioni di posti di lavoro. Il problema è della massima importanza non solo per le inevitabili conseguenze politiche, ma per la sostenibilità della stessa fase di crescita.

Infatti (e l’esempio più chiaro è quello americano), se si creano pochi nuovi posti di lavoro e se l’aumento del reddito disponibile delle famiglie aumenta a ritmi molto bassi (negli Stati Uniti, nei tre anni di questa ripresa, è aumentato cumulativamente del 2,2%, mentre nelle fasi di ripresa precedenti, nei primi tre anni, era salito del 10,6%) la ripresa non è sostenibile ed è destinata ad afflosciarsi.

Questo fenomeno, senza precedenti in queste dimensioni, è dovuto sicuramente alle delocalizzazioni. Queste sono però solo la parte emergente dell’iceberg. La parte non visibile è rappresentata dalle conseguenze sui livelli occupazionali e salariali della concorrenza dei paesi a bassi salari.

Quindi, la questione non è tanto ideologica, ma estremamente concreta. Riguarda la sostenibilità della ripresa e richiede chiare risposte politiche. Le proposte del ministro dell’economia francese sono pragmatiche e vanno sicuramente nella giusta direzione: rafforzare la competitività, puntare sull’innovazione e usare i meccanismi fiscali come una specie di premio.

Negli Stati Uniti le proposte di John Kerry sono meno articolate, ma si muovono nella stessa direzione. Il candidato democratico propone di eliminare i meccanismi fiscali che paradossalmente favoriscono l’esportazione dei posti di lavoro e offrire esoneri fiscali della durata di due anni per chi crea nuovi posti di lavoro in America.

Questi provvedimenti, sebbene si muovano in una giusta direzione, riusciranno solo a rallentare il fenomeno, ma non a risolvere il problema delle delocalizzazioni. Le differenze dei livelli salariali sono tali che è difficile immaginare che gli esoneri fiscali eliminino l’attrattiva della delocalizzazione o riducano i vantaggi competitivi dei paesi a bassi salari.

D’altro canto, la corretta strategia di puntare sulle produzioni a maggiore valore aggiunto non basta a risolvere i problemi dei mercati del lavoro dei paesi occidentali anche perché i paesi a bassi salari stanno perseguendo lo stesso obiettivo. In realtà, stiamo assistendo alla verifica del teorema economico, secondo cui in mercati aperti il costo dei fattori di produzione tende ad uguagliarsi.

E il termometro più sensibile di questo doloroso processo di adattamento è proprio il mercato del lavoro, dove si determinano livelli occupazionali e salariali.

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