Ancora una giornata difficile per la valuta americana che sul mercato interbancario ha raggiunto quota $1,0810 per un euro.
Al di la’ dell’effetto negativo che il calo del biglietto verde sta avendo sulle borse e della spinta prevedibile che avra’ sull’oro, gli analisti si interrogano sugli effetti di medio-lungo termine che un dollaro debole potra’ avere in Asia.
Il recupero della moneta europea era in parte previsto, e comunque, al di la’ degli effetti negativi sui mercati finanziari, ha un impatto positivo sull’inflazione del Vecchio Continente.
Il discorso e’ diverso per quanto riguarda il commercio mondiale e gli effetti che il cambio sta producendo nell’area asiatica. Un dollaro debole nei confronti di euro e yen giapponese (questa mattina si sono raggiunti i 117,81 yen per un dollaro) potrebbe importare inflazione negli Stati Uniti, un effetto giudicato benefico allo stato attuale dell’economia USA.
Purtroppo questa potrebbe rivelarsi una falsa speranza. Il dollaro, infatti, e’ legato da un rapporto di cambi fissi al Renmbibi, la valuta cinese. La Cina rimane al momento la realta’ economica mondiale sulla quale tutti ripongono le proprie speranze. La crescita del Pil e’ spinta da un export che puo’ solo accelerare se la valuta diventa piu’ competitiva rispetto a Stati vicini come Giappone, Malesia e Tailandia.
In questo quadro avremmo quindi un Paese di 1,2 miliardi di persone che cresce ad un tasso doppio o triplo rispetto a tutti gli altri e che esporta prodotti a prezzi stracciati. Ne consegue che un deprezzamento del dollaro troppo rapido costituisce un elemento destabilizzante per l’economia mondiale, e non il contrario. L’effetto potrebbe essere quello di generare deflazione e di infettare con il male che affligge il Giappone gia’ da molti anni gli altri Paesi del G7.
Secondo gli analisti, i dati macroeconomici dimostrano che il prossimo malato sara’ la Germania. Considerato che questo Paese produce quasi un terzo del Pil europeo, eventuali mosse aggressive di politica monetaria e stimoli fiscali potrebbero non rimanere confinati agli Stati Uniti. Purtroppo in Europa gli spazi di manovra, soprattutto sul secondo fronte, sono ridotti da un Patto di Stabilita’ sempre piu’ contestato.