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I titoli di Stato vincono alla roulette della crisi

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Il contenuto di questo articolo – pubblicato da Il Giornale – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Roma – Ansia e sudore. Eccolo l’agosto 2012 del risparmiatore italiano. Ansia generata dal pauroso ottovolante dei mercati finanziari. Sudore, a causa dei vari Minosse, Lucifero, Caronte, Nerone e tutti gli altri anticicloni che bruciano (e non solo metaforicamente) quanto ci circonda. Un cocktail micidiale, che certononaiutaastaresereni. E allora, calma e gesso: una sedia per rilassarci, un fazzoletto e una bibita ghiacciata.

Proviamo a riflettere su cosa fare dei nostri risparmi. Se ne leggono di tutte le specie in questi giorni, in tema di consigli per gli investimenti: immobili, materie prime, metalli preziosi, valute e quant’altro .E la regina delle attività finanziarie per noi italiani, gli amati e rasserenanti titoli di Stato? Che fine hanno fatto?

La paura di questi mesi ha tenuto relativamente lontano gli italiani dai titoli pubblici. La paura che qualcosa di brutto potesse accadere al nostro Paese, e la connessa perdita degli agognati risparmi che ne sarebbe derivata, hanno generato un certo scoramento che certononha aiutato i titoli di Stato a scalare posizioni nel cuore e nei portafogli degli italiani.

L’idea di chi scrive è che forse potrebbe esserci spazio per una seria riconsiderazione della convenienza economica di tale attività finanziaria e, dunque, di un ritorno se non prepotente, almeno non trascurabile, nei nostri portafogli.

Proviamo a esaminarne il perché, partendo da una premessa logica, forse dolorosa, ma necessaria: il mondo degli investimenti oggi non ha più certezze, ma al massimo probabilità.

Le certezze cui si fa riferimento erano rappresentate dai titoli di Stato (italianie non) con il rating più elevato (i titoli con la ben nota AAA, o giù di lì, ai quali la comunità finanziaria attribuiva un rischio di insolvenza pressoché nullo).

La perdita del massimo rating da parte degli Stati Uniti, della Francia e di altri Paesi importanti ha comportato che i cosiddetti titoli privi di rischio non esistono più o sono molto diminuiti di numero e quantità (restano, infatti, i titoli di Stato tedeschi e di poche altre nazioni).

Se così è, facciamocene una ragione e abituiamoci a ragionare in termini di probabilità. Cosa ci dicono le probabilità e un po’ di buon senso? Ci dicono che l’investimento in titoli di Stato italiani potrebbe rivelarsi conveniente, sia in assoluto sia in termini relativi.

Da un punto di vista «assoluto», la convenienza potrebbe risiedere nel probabile disallineamento tra lo spread oggi prevalente sui nostri titoli di Stato e il rating (o i fondamentali) dell’Italia.

Mi spiego. Il rating italiano è oggi BBB+, secondo l’agenzia Standard and Poor’s. Semplifichiamo: BBB. Le evidenze empiriche a oggi disponibili mostrano che, negli ultimi cinquant’anni la differenza di rendimento tra i titoli di emittenti con rating AAA (i migliori) e quelli con rating BBB (quelli come l’Italia oggi) è stata in media dell’1% (o 100 punti di spread). La punta massima raggiunta da tale spread nello stesso periodo è stata pari a circa 3,48%.

Attenzione, però. Questi dati fanno riferimento ai titoli corporate, e non a quelli emessi dagli Stati, e a valori riferiti agli Stati Uniti.

Ma se li usiamo come utili approssimazioni, ci accorgiamo comunque del disallineamento che sembra esserci oggi tra rating e spread dei titoli italiani, per i quali, a fronte di un rating BBB, il mercato richiede un differenziale rispetto ai titoli AAA (bund tedeschi) del 4,5%.

Delle due l’una, allora: o il rating italiano è ancora troppo ottimistico (in realtà uno spread di oltre 450 punti base sembra a molti in sintonia con un rating della categoria BB);oppure il mercato sta penalizzando eccessivamente i titoli italiani. In entrambi i casi, si potrebbe trattare di una buona notizia per i risparmiatori italiani desiderosi di tornare a investire nei titoli di Stato.

Da un punto di vista «relativo», i titoli governativi potrebbero rivelarsi una scelta corretta anche se confrontati con le azioni. Ancora una volta un semplicissimo conto ci può soccorrere.

Gli investitori azionari solitamente fondano le proprie aspettative di rendimento sommando al rendimento corrente offerto dai titoli di Stato una componente che li «premi» per il rischio più elevato sostenuto investendo in azioni. A oggi i titoli decennali italiani utilizzati quale punto di riferimento nel calcolo veleggiano intorno a un rendimento di circa il 6%. Il premio attualmente richiesto per l’investimento in titoli azionari è invece l’8%. Se si sommano i duevalori e si arrotonda il risultato si giunge al 15% circa.

Ciò vuol dire che oggi, nel nostro Paese, per risultare convenienti le azioni devono fornire un rendimento annuo medio di tale portata.

Quanti sono i titoli per i quali ragionevolmente possiamo attenderci questo risultato? Temo non molti.

Che l’investimento azionario possa non uscire vincente dal confronto con i Btp lo ha rivelato ieri anche uno studio di Mediobanca, secondo cui, a livello contabile, nel 2011 il rendimento dei Btp ha superato la redditività contabile del capitale azionario dell’1,5%.

Attenzione, inutile dire che proprio la logica delle probabilità e del buon senso che ha guidato i calcoli precedenti inducono alla cautela nella composizione del proprio portafoglio. Sono lontani i giorni in cui depositare anche il 100% dei propririsparmiintitolidiStatoaiutava a recuperare ore di sonno.

Non solo. Sempre a proposito di probabilità, ricordo che i ragionamenti sopra fatti valgono solo se la probabilità che tutto vada in rovina si riveli trascurabile. Ottimista? Sì, ma sono proprio le belle giornate di sole a dare una bella mano in tal senso.

SULL’AUTORE: Antonio Salvi e’ il Preside della Facolta’ di Economia dell’Universita’ Lum “Jean Monnet”

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